Caos Siria, Israele colpisce missili iraniani a Damasco

Il leader giordano: “Necessaria la creazione di una zona cuscinetto protetta dall’Onu”

Le recenti minacce lanciate da Bashar al Assad di un allargamento del conflitto in corso nel suo Paese in tutta la regione si stanno concretizzando e i raid israeliani in Siria ne sono una prova. Secondo l’analisi di molti osservatori arabi, a più di due anni di distanza dallo scoppio del conflitto siriano, i Paesi confinanti alla Siria sono sul punto di essere coinvolti dai combattimenti e uno di questi potrebbe essere proprio Israele. Non è un caso che ad essere stato colpito dai caccia dello stato ebraico siano stati i missili Fateh-110 in transito dall’Iran e diretti alle milizie libanesi Hezbollah. Israele si attende da un momento all’altro che, nell’interesse del regime di Damasco, le milizie di Hasan Nasrallah possano sferrare un attacco dal sud del Libano verso il nord di Israele. Nella sua ultima intervista televisiva, andata in onda il 17 aprile scorso, Assad non solo ha più volte minacciato la vicina Giordania, che consente ai miliziani jihadisti di attraversare il suo territorio per andare in Siria, ma ha fatto un esplicito riferimento ai paesi che sostengono i ribelli affermando che a causa loro «il fuoco che divampa in Siria potrebbe propagarsi in tutta la regione».

Da mesi infatti la strategia di Assad è quella di minacciare un allargamento del conflitto agli altri Paesi arabi, come Turchia, Libano, Iraq e Giordania e non è esclusa Israele. Ha iniziato con la Turchia sin dagli albori del conflitto, in quanto Ankara si è subito schierata al fianco dei ribelli siriani, cercando di portare dalla propria parte la sezione siriana del Partito del lavoratori del Kurdistan (Pkk), strategia che è riuscita per alcuni mesi, quando i curdi gestendo in piena autonomia i propri villaggi si sono scontrati con i ribelli sunniti siriani dell’Esercito libero, ma che però di recente è fallita grazie all’accordo raggiunto dalla Turchia con il Pkk e dai ribelli siriani con i curdi di Qamshili.

Più facile invece sarebbe per Assad portare il fuoco del conflitto in Libano, grazie alla presenza delle milizie sciite Hezbollah, alleato strategico di Damasco insieme all’Iran. Centinaia di combattenti libanesi si trovano in Siria son dall’inizio del conflitto e da mesi si registrano scontri settari tra sunniti e alawiti nel nord del Libano, in particolare a Tripoli. La linea che Assad vuole far passare è che senza di lui la Siria e i Paesi confinanti cadrebbero in una guerra settaria e religiosa. Per questo di recente le sue truppe si sono accanite contro le popolazione sunnite, in particolare a Bayda e Banias, proprio per acuire questo odio settario. Odio che da più di due mesi sta divampando anche nel vicino Iraq, dove il governo di Baghdad pur dichiarandosi neutrale sostiene di fatto il regime di Assad.

Nella provincia sunnita di al Anbar vanno avanti da settimane sit-in e manifestazioni contro il governo centrale, anche se il clima è diventato incandescente dopo che la scorsa settimana l’esercito iracheno ha attaccato alcuni manifestanti nel villaggio di al Hawija, nel nord, alla ricerca di alcuni presunti terroristi, provocando centinaia di vittime sunnite. Allo stesso tempo anche i curdi sono entrati in rotta di collisione con Baghdad. Da un lato hanno dispiegato le milizie Peshmerga intorno alla città petrolifera di Kirkuk, approfittando della debolezza dell’esercito iracheno impegnato nel reprimere le proteste sunnite, ma dall’altro hanno sostenuto i curdi siriani nella speranza che dal conflitto in Siria possa nascere uno Stato curdo allargato che vada al di là del nord dell’Iraq.

In Giordania invece il Paese rischio il collasso a causa del continuo arrivo di profughi siriani che provoca non pochi problemi di sicurezza. Il regno hashemita è già alle prese con una grossa crisi economica e con i Fratelli Musulmani che, dopo aver boicottato le ultime elezioni, puntano a portare la primavera araba anche nel proprio Paese. Assad ha accusato Amman apertamente di favorire il transito dei miliziani salafiti del Fronte di Salvezza, gruppo legato ad al Qaeda, verso la Siria minacciando ritorsioni e sostenendo che questi gruppi potrebbero presto ritorcersi contro il suo governo. In un quadro del genere, con l’imminente rischio di un conflitto su scala regionale, Damasco avrebbe solo da guadagnarci nel caso in cui le milizie sciite di Hezbollah dovessero attaccare Israele, perché sarebbe l’ennesima dimostrazione all’occidente che il suo regime sarebbe necessario nella regione per fermare il terrorismo jihadista da un lato e gli scontri settari dall’altro e a garantire la sicurezza dello stato ebraico.

Non a caso solo pochi giorni fa il premier giordano, Abdullah al Nusur, commentando la notizia dell’uso delle armi chimiche in Siria ha spiegato che «si rischia di vedere uno scenario simile a quello della guerra nell’ex Jugoslavia». Intervistato dall’emittente satellitare al Arabiya per la prima volta da quando il suo esecutivo ha ottenuto la fiducia del parlamento di Amman, al Nusur ha affermato che «nel caso in cui venissero confermate le notizie sull’uso delle armi chimiche in Siria diventerebbe molto probabile uno scenario simile a quello della guerra in Bosnia». Per questo al Nusur ritiene che «sia sempre più necessaria la creazione di una zona cuscinetto all’interno del territorio siriano protetta dall’Onu».

In vista di questo pericolo alcuni gruppi armati regionali, come quelli palestinesi, hanno deciso infatti di cambiare posizione. Se Hamas è passato ufficialmente con i ribelli siriani, lo storico alleato di Assad, la Jihad islamica palestinese, sembra abbia deciso di cambiare schieramento o comunque di non schierarsi. Fonti vicine a Ramadan Abdullah Shalah, segretario generale della Jihad islamica, hanno negato che il gruppo abbia offerto di recente sostegno al regime siriano. Secondo quanto riferisce il quotidiano arabo al Quds al Arabi, il gruppo islamico resterà neutro nel conflitto siriano non volendo sostenere nessuna delle parti in campo. Shalah si trova infatti ora in Iran per partecipare ad una conferenza islamica a Teheran ed è «alla ricerca di una mediazione tra il regime iraniano e i ribelli siriani al fine di arrivare ad una soluzione politica della crisi». Il leader della Jihad islamica è stato due settimane fa al Cairo anche se risiede stabilmente a Beirut da quando due anni fa sono iniziati gli scontri in Siria dove in passato sia il suo gruppo che Hamas avevano i propri uffici.

Dal punto di vista diplomatico infine ci sono novità all’orizzonte in considerazione di un’evoluzione del conflitto siriano. Potrebbe essere l’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, il nuovo inviato interazionale per la Siria. È quanto hanno rivelato fonti arabe all’emittente satellitare libanese al Mustaqbal. La stampa mediorientale parla ormai da giorni delle imminenti dimissioni dell’attuale inviato della Lega Araba e delle Nazioni Unite per la Siria, l’algerino Lakhdar Brahimi, a causa della fase di stallo in cui versa la crisi siriana e per i dissidi avuti con alcuni paesi arabi. Secondo il giornale algerino el Khabar, Brahimi «presenterà le sue dimissioni la prossima settimana al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon» ed «esisterebbe un orientamento a dare l’incarico a Bill Clinton».

Dietro la decisione di Brahimi di lasciare il suo incarico ci sarebbero le grosse difficoltà incontrate nei rapporti con i paesi della Lega Araba e le pressioni di Doha e Riad. Secondo quanto riferiscono al giornale algerino el Watan fonti a lui vicine, Brahimi sarebbe sul punto di dimettersi proprio a causa dei contrasti con i governi di Qatar e Arabia Saudita. I Paesi arabi del Golfo non tollerano più il freno che Brahimi impone alla loro volontà di armare i ribelli siriani. «Essi vogliono le sue dimissioni perché il suo lavoro disturba la loro agenda, richiamandoli sempre all’ordine – spiega la fonte – impedendo di armare i ribelli e continuando ad ostinarsi a cercare una soluzione pacifica sulla base degli accordi di Ginevra».

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