In una delle prime inquadrature della “Grande bellezza”, alla base della statua di Garibaldi al Gianicolo, si legge “Roma o morte”. Nelle successive due ore e passa, Sorrentino prova a correggere la risorgimentale asserzione: “Roma e morte”, o più nettamente “Roma è morte”. Perché funeraria è la città raccontata, intrisa di personaggi squallidi e improbabili, una pozzanghera morale, programmaticamente cinica, umanamente fetida: la Grande Monnezza.
In linea con lo spirito di molti “stranieri” a Roma, anche Sorrentino assorbe e rilancia la maestosità cariata della capitale, affascinato e insieme ammorbato da un soverchiante splendore estetico completamente ribaltato dalla vita sociale che si svolge in quel contesto. Lampante e stracitato il canone FF (Fellini-Flaiano, o forse sarebbe il caso di scrivere Flaiano-Fellini) per quanto tra “La dolce vita” e “La grande bellezza” ci sia lo stesso rapporto che intercorre tra la carriera militare di Napoleone e il gioco del Risiko. E questo non tanto o non solo per un abisso di talento tra i due poli, ma anche per l’oggetto. Pur nella mostruosità del tratto felliniano, la Roma del ’60 è la capitale di un paese in pieno boom, ha ospitato uno degli eventi mondiali più memorabili del Dopoguerra come la XVII Olimpiade, è una delle capitali mondiali del cinema, è un riferimento del gusto: dipende anche da questo se “dolce vita” o “paparazzo” entrano nel vocabolario del mondo, se la fontana di Trevi irrompe nell’immaginario collettivo.
La Roma d’oggi è una città completamente sbandata, dove – politica a parte – non si produce nulla che abbia riflessi appena sopra Viterbo. E questo castra anche inconsapevolmente la fantasia nell’inquadrarla se l’obiettivo è farne il fuoco di un racconto morale contemporaneo: certe suggestive immagini notturne sembrano uscite da un catalogo dell’assessorato al turismo, le suore e le nane e i cardinali mondani sono un fellinismo piuttosto inappropriato, molte scelte stilistiche suonano puramente decorative: dalla musica onnipresente, a certi dolly usati fino alla nausea, fino alla scena di un personaggio che nuota sott’acqua per ritrovar se stesso, scena che è tanto poetica e infatti è presente praticamente in ogni film d’autore italiano degli ultimi anni (Crialese c’hai costruito sopra mezza carriera…).
Entrando in sala, si pensa di vedere un film su Roma, ma per mancanza di materiale si entra in un viaggio dentro certe ossessioni dell’autore, acquisito cittadino romano. Un viaggio certamente condotto da un grande regista quale Sorrentino è. Ma il risultato è questo. Meglio saperlo.
Per accertarlo, basta confrontarsi con i personaggi. Non uno davvero riuscito. Jep Gambardella-Toni Servillo sarà pure al centro della mondanità, ma professionalmente è un mezzo sfigato (a un certo punto lo mandano in trasferta all’Isola del Giglio per la Concordia incidentata, capirai…), non ha nemmeno il successo effimero e prezzolato della tv, non è ricco di famiglia, come perciò possa permettersi un attico super terrazzato con vista sul Colosseo è un mistero: segno che, nel caso di specie, la scenografia ha contato assai più della sceneggiatura. Come nei peggiori copioni, c’è bisogno di un flashback perché il suo malessere esistenziale abbia una comprensione e uno sfogo.
Per tutto il film sputa sentenze, anzi aforismi, magari in voce off perché fa più uomo dai pensieri profondi, e quando ha un drink in mano biascica un napoletano che così ridicolo non s’è mai sentito. Carlo Verdone è uno scrittorello fallito che annoia già al primo sguardo. Galatea Ranzi, Isabella Ferrari e Pamela Villoresi in trio hanno una resa da “Centovetrine”; assai meglio Sabrina Ferilli, al di sopra del personaggio che le tocca in sorte, una spogliarellista agé nel locale del padre, malata non si capisce bene di che, con Wojtyla tatuato sul braccio… Mah, forse mischiare Oldoini e Antonioni non fa granché bene.
L’ultimo grande film su Roma, città smodata e odiosa e mondana e clericale e abbacinante e misteriosa, è stato “L’ora di religione” di Marco Bellocchio. Per il resto, l’Urbe è stata pura presenza scenografica. “La grande bellezza” non sfugge a questa traccia, in cui si impantana anche il talento di Sorrentino. Un talento straordinario nel biopic visionario, che si tratti del Divo Andreotti o della splendida coppia dell’ “Uomo in più” dove genialmente – come orme degli anni Ottanta marci e scintillanti – si intrecciano le vite di un cantante di night alla Califano o Gagliardi e un calciatore alla Di Bartolomei. Ma quando il campo è aperto, il regista imbizzarrito gira in cerchio sfiancandosi senza avanzare, e tende al simbolico, allo schematico, al ripetitivo, talora al velleitario. Forse per lui è ora di aprire coraggiosamente una nuova stagione. In genere coincide con scelte drastiche. Anche Fellini a un certo punto fece a meno di Flaiano e Mastroianni.