MADRID – Non bastava la feroce crisi economica che dal 2008 sta mettendo in ginocchio il Paese, viviseziona il suo tessuto socio-economico e produce grandi tensioni sociali. Con il 27% della popolazione attiva senza un lavoro, con centinaia di migliaia di mutui non più sostenibili dalle famiglie e su cui pende l’incubo dello sfratto, con i cassetti della Moncloa, il palazzo del potere iberico colmi di diktat su austerità e tagli firmati Bruxelles e vuoti di soluzioni efficaci e a breve termine, la Spagna, che un tempo correva in Borsa alla velocità del 3,8%, da oggi accoglie nel suo ventre molle, l’ultima coltellata: la sconfitta anche sui campi di calcio e diventa, assieme all’Italia, la facile metafora di un Europa divisa in due, non solo dall’economia, ma anche dal pallone.
All’indomani di un primo maggio pieno di appelli, di mobilitazioni e di «indignados», «obreros» e «desempleados» scesi nelle piazze spagnole per dare sfogo alla propria rabbia e voce al proprio orgoglio, dopo Madrid, anche Barcellona si sveglia con il sapore amaro in bocca della sconfitta e dell’umiliazione per mano del famigerato nemico tedesco. L’Invincibile Armata del calcio spagnolo, dopo la disfatta del Real Madrid disintegrato dai panzer del Borussia Dortmund, ora implode per un altro missile assestato dai cugini del Bayern Monaco che al Camp Nou, la cattedrale del calcio catalano, hanno stracciato i blaugrana, buttandoli fuori, come gli odiati merengues della Capital, dalla corsa al sogno europeo per la coppa con le orecchie giganti.
E allora non è difficile ascoltare nei bar di Barcellona, Madrid o Oviedo l’orazione funebre del calcio spagnolo che recita un po’ così: «La Germania si è presa tutto, la nostra casa, il nostro lavoro e ora anche il nostro calcio. Non ci rimane più nulla». Poi, c’è chi la butta più sul goliardico e si chiede: «Anche il calcio ora vuole che impariamo a parlare tedesco». La doppia eliminazione brucia come non mai, brucia come la consapevolezza di essere stati traghettati a forza da uno stato di benessere economico diffuso, a uno stato di quasi indigenza, con città svuotate da disoccupazione, fallimenti e sfratti. Con le vie delle principali città butterate dai cartelli di «si vende», «si affitta» e «chiuso per fallimento».
Brucia quell’orgoglio di essere stati fino a pochi mesi fa, più bravi dei cugini italiani, i compagni di sventura per questioni economiche, ma anche storici antagonisti sui campi da gioco. La Spagna del calcio, ferita mortalmente al cuore, incredula cerca qualche molecola di quella potente fiammata di orgoglio che la proiettò, meno di un anno fa, sulla vetta del mondo con la Selección española, le Furie Rosse, del vecchio e ostinato Vicente Del Bosque, a scapito dei nostri Azzurri, più bòasonati ma strapazzati come gattini nella gabbia dei leoni. Nel 2012 fu un’occasione unica per umiliare l’Italia e gli italiani, per sfogare secoli di «mala leche», di sgorgante bile mista a invidia non solo per i club forti e vincenti del Bel Paese, ma anche per il nostro stile di vita che, con la sua grazia ed eleganza, metteva in ombra tutti gli altri.
Eppure, messe da parte le storiche invidie, ora Spagna e Italia sono unite e perdenti, indossano la medesima maglia in quello che è un derby calcistico che, mai come prima, si presta con efficacia alla metafora di ciò che avviene nell’Europa dominata dallo strapotere della Germania. E, qualora qualcuno se lo fosse dimenticato, la Germania ha un così solido pedigree calcistico da diventare universalmente noto ed eterno nella battuta dell’ex campione inglese, Gary Linker: «Il calcio è uno sport semplice: si gioca in undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi».
Oggi i titoli dei giornali sportivi della Spagna usano le stesse parole e la stessa retorica di quelli italiani all’indomani delle cocenti e passate sconfitte in Champions di Inter, Juventus e Milan. «A un solo gol dalla gloria» e «Il Real Madrid muore lottando come un leone». E rimane l’ingorda e vittoriosa Germania pigliatutto, con i conti in ordine, l’economia forte, la crescita, le opportunità di lavoro. La Germania che ora detta legge anche nel calcio, ma che non ci sente bene da quell’orecchio con cui dovrebbe ascoltare il grido di dolore del meridione europeo, sconvolto da un impoverimento che non è solo di lavoro e di portafoglio, ma anche di idee e di speranza. E, quindi, di futuro.
Nella doppia finale di Champions, tra Spagna e Germania si è assistito alla resa di quello che era il campionato più bello del mondo (un tempo si diceva così della Serie A), ma che ora colleziona debiti ed è prossimo a esplodere assieme alla bolla che lo ha gonfiato di eccessi, denaro e arroganza. Così come è accaduto col mattone che ha innescato la crisi.
Si respira un’aria inedita nei campi di calcio spagnoli, la sensazione più che certa del tramonto di un’epoca, come fosse un tragico ritorno al passato, quando cinquanta anni fa, dalle regioni più povere e meridionali di Spagna, si partiva per andare a cercare lavoro in Germania. Lo sa bene Pep Guardiola, guarda il caso, prossimo allenatore del Bayern Monaco o lo stesso José Mourinho, che dopo l’età dell’oro del suo Real Madrid e gli allori spagnoli, passerà al Chelsea.
Ma la miglior immagine della disfatta del calcio iberico, l’ha data lo spot «Adiós, amigos», malignamente prodotto da Sky Sport Germania, dove un torero, anziano, stanco e in sovrappeso si trascina sconfitto fuori dall’arena con due banderillas con i colori del Bayern e del Borussia infilzate proprio lì nel sedere.
Ecco il video dello spot