Alejandro Zambra è apparso nella lista dei 22 migliori scrittori latinoamericani sotto i 35 anni secondo Granta. Ha scritto tre romanzi tradotti in varie lingue, e ora insegna letteratura all’università Diego Portales, in Cile. Ha i capelli neri con una riga che lo fa sembrare un po’ un rivoluzionario anni Settanta. Gli piacciono da matti Natalia Ginzburg, Cesare Pavese e Dino Buzzati; la sua città preferita è Santiago del Cile, dove vive («è un posto difficile da difendere anche per noi cileni, non perché non sia quasi meravigliosa in certi scorci, ma perché è molto difficile imparare a conoscerla»), e gli piace Elvas, una cittadina portoghese di 20.000 abitanti. Riesce a essere impenetrabile pur essendo amichevole. Al salone del libro di Torino, dove il Cile era Paese ospite, ha parlato del suo ultimo libro, Modi di tornare a casa (Mondadori, 156 pagine € 16,50, è in libreria dal 21 maggio).
Alejandro, come scrivi? Hai qualche rituale?
Più che di rituali parlerei di abitudini. Ho l’abitudine di tenere un diario e scriverci un po’ tutti i giorni, ma senza nessun tipo di senso del dovere o di scopo preciso… e a volte capita che da quello che scrivo ne esca un’idea.
Per scrivere un intero romanzo, però, oltre a un’idea serve anche una grande disciplina. . .
Più che la disciplina credo che quello che porta a terminare un romanzo sia una specie di nevrosi ossessiva. Improvvisamente appare un’idea e nei mesi successivi l’unica cosa che puoi fare è inventarti malattie immaginarie per poter rimanere a casa dal lavoro e scrivere. La componente ossessiva è fondamentale nella scrittura. Un libro a volte diventa importante come un membro della famiglia. Ora penso che la cosa migliore che ho fatto in questi anni sia stata bere moltissima birra e rileggere alcuni libri con devozione, con una curiosa fedeltà, come se vi pulsasse qualcosa di particolare, una qualche pista sul destino (p. 52).
Qualche aneddoto scandaloso da condividere?
No… O meglio, niente che abbia voglia di raccontare…
Prossima domanda, allora: tanta gente sostiene che fare lo scrittore sia un po’ (o dovrebbe essere) come fare il prete: una vocazione. . . Hai sempre saputo di voler fare lo scrittore?
No, non ho mai pensato adesso scrivo perché voglio fare lo scrittore, perché vorrei scrivere per vivere… Ho sempre scritto fin da bambino, ma per passatempo… perché era divertente. È stato un gioco che alla fine si è trasformato in un’abitudine.
Tu hai cominciato però con la poesia, prima di scrivere prosa. Come sei passato poi ai romanzi?
In realtà non è così diverso scrivere prosa e scrivere poesia… Bonsai (il suo primo romanzo, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2007; 96 pagine, 12 € e vincitore del premio cileno della critica, ndr) è nato da un progetto poetico. Come le poesie, anche i romanzi hanno bisogno di un ritmo, un romanzo che non si può leggere a voce alta in realtà no sirve. La poesia poi è una cosa naturale per i cileni. Il 90% di noi scrive poesie, abbiamo una tradizione poetica molto forte, come l’Italia del resto, ma per noi però c’è quest’idea sociale che “il poeta” esiste, e che ha diritto a esistere…
Il tuo ultimo libro, Modi di tornare a casa, parla dell’infanzia, e del tema della memoria della dittatura di Pinochet. Come ti è venuta l’idea di scrivere proprio su questo tema un po’ ostico?
L’infanzia e la dittatura per me sono inevitabilmente legati e in realtà ho sempre pensato che avrei scritto qualcosa su questo tema. È stranissimo non poter ricordare quei giorni di quando eri piccolo, e scrivere, per me, è stata una specie di maniera di provocare il ricordo. Il fatto è che per tutti quelli che come me erano dei bambini in quegli anni, il ricordo più impresso è proprio il silenzio, quel non parlare degli adulti, e noi ci chiedevamo continuamente se era perché erano semplicemente fatti così o se c’era qualche altra ragione. In qualche modo intuivamo che avevano paura, ma nessuno parlava, quindi non potevamo davvero darci una risposta.
Allora ero (lo sono sempre stato e sempre lo sarò) tifoso del Colo-Colo. Quanto a Pinochet, per me era un personaggio della televisione che conduceva un programma senza un orario fisso, e lo odiavo per questo, a causa delle noiose emittenti nazionali che, con i suoi discorsi interrompevano la programmazione nei momenti migliori. Tempo dopo lo odiai perché era un figlio di puttana, un assassino, ma allora lo odiavo per quelli show intempestivi che mio padre guardava senza dire una parola, senza regalare altri gesti se non aspirare più forte la sigaretta, perennemente cucita alla bocca (p.18).
Il protagonista del romanzo ha un forte risentimento verso i genitori, li incolpa del loro silenzio e del loro rifiuto di condannare la dittatura, quanto di questo è autobiografico?
Tutti i romanzi mescolano il ricordo all’invenzione, ma secondo me non esiste niente di più falso dei libri autobiografici propriamente detti. Questo è un libro che esplora la memoria, e mi interessa di più, e credo che sia più importante, esplorare quello che è passato alla collettività più che a un singolo individuo. Nasce attorno a molte domande senza risposta che tormentano la mia generazione… Il perché del silenzio dei nostri genitori (e sì, anche dei miei) nei confronti della dittatura è una di queste, perché non essere contro per noi ora significa in un certo senso essere a favore, e il risentimento nei loro confronti che è nato per via di questa cosa è comune a molti miei coetanei.
Mi chiese se militavo in qualche gruppo, risposi di no. Mi domandò della mia famiglia, gli dissi che durante la dittatura i miei genitori si erano mantenuti ai margini. Il professore mi guardò con curiosità o con disprezzo; mi guardò con curiosità, però sentii che nel suo sguardo c’era anche disprezzo (p. 63).
Quello che voglio dire è che le domande centrali di questo libro sono domande che mi faccio io come si fanno tutti quelli che come me sono stati bambini durante la dittatura. Domande che ruotano attorno alla dimensione di un dolore e del come uscire da quella sensazione viscerale di essere stati dei personaggi secondari di un romanzo scritto da qualcun altro.
Il romanzo è il romanzo dei genitori, pensai allora, penso adesso. Siamo cresciuti pensando questo, che il romanzo fosse dei genitori. Maledicendoli, e rifugiandoci anche, sollevati, in quella penombra. Mentre gli adulti uccidevano o morivano, noi disegnavamo in un angolo. Mentre il paese cadeva a pezzi, noi imparavamo a parlare, a camminare, a piegare i tovaglioli a forma di barche, di aerei. Mentre il romanzo accadeva, noi giocavamo a nasconderci, a sparire (p.52).