Svolta del Papa: basta influenze speciali sull’Italia

Dalla riorganizzazione delle Diocesi, una Chiesa più “federale”

Ridurre il numero delle diocesi, non cedere alle lusinghe del potere e dell’affarismo, vigilare sulla propria spiritualità e fedeltà al Vangelo, non trasformarsi in funzionari e non perdere nemmeno la tenerezza dell’amore di Gesù. È lungo questo sentiero fatto di ammonimenti e di esortazioni che il Papa ha voluto, nella serata di giovedì, dare indicazioni precise sulla prospettiva della Chiesa in Italia ai vescovi riuniti nella loro 65esima assemblea plenaria che si è svolta in Vaticano.

Durante la cerimonia della professione di fede che si è svolta nella basilica di San Pietro, Francesco ha però anche toccato alcuni punti concreti: oltre a una riduzione delle 226 diocesi della Penisola – progetto al quale la Cei ha già cominciato a lavorare – ha infatti chiesto che le conferenze episcopali regionali abbiano un ruolo crescente nella vita della Chiesa, quindi ha affrontato un punto delicato e nevralgico: con le istituzioni politiche italiane – ha affermato – devono parlare i vescovi, non è un compito della Santa Sede. Quest’ultima affermazione ha alcune conseguenze di rilievo: in primo luogo stabilisce una divisone dei ruoli precisa, ma sta anche a significare che l’Italia non deve più essere considerata dal Vaticano, una sorta di Paese speciale sotto il profilo politico sul quale esercitare un’influenza diversa rispetto ad altre realtà.

Si tratta di un’affermazione che potrebbe avere conseguenze importanti: sarebbe infatti la fine dei problemi legati alla cosiddetta ingerenza vaticana sulla vita pubblica del Paese; resterebbe naturalmente come già avviene la voce dei vescovi, ma verrebbe meno quella sensibilità rafforzata che in passato ha segnato i rapporti fra i governi e le gerarchie vaticane. Il Papa ha toccato questo punto parlando a braccio mentre ringraziava il cardinale Angelo Bagnasco dopo che questi gli aveva rivolto un indirizzo di saluto.

«Il dialogo con le istituzioni politiche, sociali e culturali italiane – ha detto Francesco – compete ai vescovi». «La Chiesa in Italia – ha aggiunto – è in dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche, è il compito vostro meno facile», quindi il Papa ha insistito sulla necessità «di fare forti le conferenze regionali perché siano la voce di tutte le regioni tanto diverse». Insomma, il Papa promuove anche una sorta di modello di Chiesa federale, e quindi delinea una Cei meno centralizzata e più collegiale. Se il rapporto speciale dell’Italia con la sede di Pietro rimane dal punto di vista storico e religioso, questo non deve influenzare la sfera dei rapporti politici. Restano certo gli incontri del Papa con il Capo dello Stato, ma qui siamo nell’ambito della prassi diplomatica e istituzione.

Ancora, con queste poche parole, Papa Francesco ha posto fine al tentativo del Segretario Tarcisio Bertone di riportare sotto la Segreteria di Stato le relazioni con l’Italia; un progetto che Bertone lanciò pubblicamente all’inizio del pontificato di Ratzigner e che incontrò per altro le resistenze dei vescovi e diede inizio a un sordo conflitto fra Segreteria di stato e Cei. Ma nell’impostazione di Francesco c’è dell’altro, non solo una divisione dei compiti, quanto l’annuncio di un rapporto privo di connotati politici sovradimensionati con l’Italia. Sarebbe la fine dell’epoca delle doppie consultazioni per formare i governi, quelle formali che si facevano al Quirinale e quelle informali che si svolgevano Oltretevere. Si sente dunque per la pria volta e in modo consistente la mano di un Papa argentino in queste affermazioni, il baricentro della Chiesa non è più in Europa e si sente. Forse siamo alla vigilia di un mondo nuovo nel quale i pranzi e gli incontri fra i vertici vaticani e le delegazioni del governo italiano avranno un peso diverso, si vedrà.

Tuttavia allo stesso tempo Francesco ha fatto un discorso severo ai vescovi italiani in relazione ai comportamenti personali e alla coerenza che deve guidarli sollevando quasi una sorta di questione morale all’interno della Chiesa. “Anche l’amore più grande – ha detto il Papa – quando non è continuamente alimentato, si affievolisce e si spegne”. Quindi il richiamo all’apostolo Paolo che ammoniva: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio». Il rischio è che un simile atteggiamento venga meno: «La mancata vigilanza – lo sappiamo – rende tiepido il Pastore; lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell’organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio». «Si corre il rischio, allora, come l’Apostolo Pietro – ha spiegato Bergoglio – di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda».

E allora, ancora una volta, Francesco ha spiegato come, nella sua visione, si deve muovere un uomo di Chiesa: «Essere pastori vuol dire anche disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge; capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza. Dalla condivisione con gli umili – ha aggiunto – la nostra fede esce sempre rafforzata. Mettiamo da parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato alla nostra sollecitudine». Fra questi ultimi il Papa chiede ai vescovi di occuparsi con cura anche dei propri sacerdoti. 

Twitter: @FrancePeloso

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