Videla, il dittatore argentino dei 30mila desaparecidos

È morto in carcere all’età di 87 anni

Non si era mai pentito di nulla. Anzi, aveva sempre rivendicato le sue azioni. Fino allo scorso mercoledì, quando in aula, davanti ai giudici che lo interrogavano sul caso chiamato Plan Cóndor – il programma di cooperazione dei regimi militari del Sudamerica degli anni Settanta e Ottanta per braccare gli oppositori – si era definito un «prigioniero politico», non senza aver detto chiaro e tondo: «Questo tribunale non ha le competenze per giudicarmi». D’altronde, per Videla l’Argentina e le sue azioni erano soggette solo a Dio.

Questa mattina la notizia ha scosso l’Argentina: Jorge Rafael Videla, il dittatore più crudele della storia di Buenos Aires, è morto nel carcere di Marcos Paz, all’età di 87 anni. Era condannato a due ergastoli per crimini contro l’umanità, che commise in qualità di capo del regime tra il 1976 e il 1981, più 50 anni di carcere nel processo sui bambini rubati. Anche se, dopo la sentenza, aveva affermato: «Quelle partorienti usavano i loro frutti embrionali come scudi».

A dare la notizia del decesso è stata l’attivista di ultradestra e moglie di un membro della giunta militare, Cecilia Pando, alla radio Once Diez: «Videla è scomparso nel sonno. Ieri sera non aveva cenato perché si sentiva male», ha dichiarato. Ma secondo le prime testimonianze legali, in realtà l’ex dittatore sarebbe morto in bagno. Giovedì sera aveva disturbi allo stomaco. Il venerdì mattina si era svegliato all’alba, e mentre stava entrando in bagno si era accasciato a terra. 

A Buenos Aires erano le 6.30 e nella sua cella c’era sempre quell’unico mobile prescelto: una libreria pieni di testi di storia e di religione. Accanto un tavolo e una foto della famiglia appesa a muro, insieme a un grande crocifisso di legno. Le guardie del carcere Marcos Paz dicono che il pomeriggio prima di morire avesse pregato in ginocchio, vicino a letto, come aveva sempre fatto fin da bambino. Poi è arrivata la morte, per cause naturali, quando l’Argentina apriva gli occhi.

Le madri di Plaza de Mayo

Anche Nora Cortiñas, cofondatrice delle madri di Plaza de Mayo, ha letto la notizia appena sveglia. Poco dopo rilasciava un’intervista al quotidiano argentino Clarín: «Non c’è niente da festeggiare: è morto e si è portato con sé i segreti più importanti di un’epoca tragica». Quella dei 30 mila desaparecidos. Nel 1979, a una conferenza stampa, l’ex dittatore lo affermava con forza: «Un desaparecido è un’incognita: non ha identità, non esiste, né morto né vivo».

A Buenos Aires qualche abuela di Plaza de Mayo, però, non può che tirare un sospiro di sollievo. Come Estela de Carlotto che sempre al Clarín ha raccontato: «Mi rassicura che un essere così disprezzabile abbia lasciato questo mondo». Repulsione ma anche tranquillità. In giornata le reazioni alla morte di Videla si sono susseguite a catena. Anche il nobel della Pace Adolfo Pérez Esquivel, da sempre in prima fila contro la dittatura del Paese, ha commentato la scomparsa del generale: «Un uomo che ha seminato morte e dolore. Ma la sua morte non chiude un ciclo, l’Argentina continua a cercare ancora i suoi desaparecidos».

L’unica finora a non essersi espressa, nemmeno su Twitter, è Cristina Fernández de Kirchner, la presidentessa peronista. Solo il deputato Ricardo Alfonsín, figlio del ex presidente Raúl Alfonsín, ha affidato a Twitter un commento: «Videla ci ricorda fin dove può spingersi l’odio e la malvagità. Solo con la democrazia e con la Giustizia ci prendiamo cura della vita».

Nato il 2 agosto del 1925 a Mercedes, in una famiglia di militari di alto rango e di politici di prestigio, Jorge Videla aveva cominciato la sua carriera militare già a diciotto anni. Nel 1975 Isabel, la vedova di Juan Domingo Perón alla guida del Paese, lo aveva nominato capo dell’esercito. Fu allora che le Forze armate presero in mano il potere per ristabilire l’ordine: l’Argentina viveva nel caos, tra guerriglie di strada, crisi sindacali e inflazione. Perfino all’interno del movimento peronista erano nate profonde spaccature. 

Il 24 marzo del 1976 i golpisti spodestavano così la Perón, scioglievano i partiti politici, chiudevano il Parlamento. Cominciava il cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale. Da allora solo dittatura militare, per ben sette anni. Cinque dei quali con Videla al comando. Col regime, che godette dell’appoggio del potere economico del Paese, sparivano 30mila persone, secondo i numeri forniti da diverse organizzazioni per i diritti umani. Molte, dopo essere state torturate, vennero gettate dai “voli della morte” al Río de la Plata o in mare. Altri furono fucilati. Migliaia andarono in esilio o vennero sequestrati, torturati e dopo liberati. Senza contare i circa 500 bambini, nati durante la prigionia, che furono sottratti alle loro madri e affidati ai militari o a persone legate al regime. 

Solo dopo il ritorno della democrazia nel 1983, il governo di Raúl Alfonsín tentò di far luce sul potere esercitato dalla junta militar, autorizzando le prime indagini contro i golpisti. L’ex dittatore venne condannato per la prima volta all’ergastolo nel 1985, per aver capeggiato il colpo di Stato. Nel 1990 però l’allora presidente Carlos Menem concesse l’indulto a Videla e agli altri militari condannati. Solo qualche anno dopo, in Spagna, il giudice Baltasar Garzón ha riaperto le indagini contro il generale, già accusato di crimini contro l’umanità.

Nel 2003, con Néstor Kirchner alla presidenza dell’Argentina, l’indulto di Menem è stato dichiarato incostituzionale e nel 2010 l’ex dittatore è stato condannato un’altra volta all’ergastolo per i crimini commessi. Lui però non si è mai sentito colpevole. Anzi, qualche giorno prima di morire, aveva perfino esortato la popolazione argentina di disfarsi del «regime neo-comunista» della Kirchner.

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