«Stiamo seguendo tutte le piste legali» per assicurare alla giustizia Edward Snowden, dice Barack Obama. È una traduzione prudente di quello che il falco repubblicano Lindsey Graham spiega senza inibizioni: «Andremo a prendere Snowden fino agli estremi confini della terra».
Nel giorno in cui gli Stati Uniti hanno preso ad alzare la voce contro l’asse Pechino-Mosca-Quito, che sta aiutando l’ex contractor della Nsa che ha spifferato il programma di sorveglianza del governo americano a trovare un rifugio sicuro, il tono delle dichiarazioni pubbliche assimila di fatto un nerd traditore ai terroristi che pianificano attacchi contro l’America. Non siamo ancora al «muoveremo il cielo e la terra per trovarlo» che Obama ha riservato a Osama Bin Laden, ma il concetto è quello. E l’America ha buone ragioni per mostrare i denti al trentenne formalmente accusato di spionaggio.
Il capo della Nsa, Keith Alexander, dice che Snowden ha causato un «danno irreparabile» all’America; la Casa Bianca sostiene che a questo punto è chiaro che le informazioni che l’ex analista porta con sé sono anche a disposizione di Russia e Cina, e il fatto che non abbia detto una parola contro i regimi che lo stanno aiutando a volare chissà dove è la prova che le tribolazioni della libertà di parola lo tormentano fino a un certo punto. Snowden è un traditore in fuga con passaporto annullato dall’America, una spia che ha attivamente aiutato i nemici accampando la trasparenza come scusa: «È possibile che gli Stati Uniti vengano attaccati perché ora i terroristi potrebbero sapere come difendersi», ha detto il segretario di Stato, John Kerry. Lo smanettone delle Hawaii non merita un trattamento retorico più clemente di quello che si riserva ai terroristi. Nel sistema nervoso dell’America si attivano gli stessi meccanismi di difesa, analoghi punti deboli vengono sollecitati, scattano gli stessi riflessi condizionati che regolano le reazioni al terrorismo, persino aggravati dal fatto che Snowden è connesso alla rete dei competitori globali dell’America.
La facilità è l’aspetto più sconcertante dell’affare Snowden. Basta un ragazzo che si muove agilmente sui tasti del computer per resuscitare ansie da caccia all’uomo che soltanto certi leader di al Qaida e dei talebani hanno saputo generare. Non servono conoscenze tecniche fuori dal comune, non serve nemmeno il diploma o la laurea, essere nella stanza dei bottoni non è necessario per richiamare nell’America quella paura nata dodici anni fa, per riattivare la paranoia da Guerra Fredda che Mosca cavalca con maliziosa ambiguità. A Snowden è bastata la qualifica di abile nerd per trafugare e trasferire informazioni vitali per la sicurezza nazionale. E quando il geek solitario incontra l’idealista che voleva arruolarsi nell’esercito americano per liberare il popolo iracheno oppresso e poi si ritrova deluso dall’ipocrisia del governo, ecco che scatta la chimica del tradimento ed entrano in circolo gli anticorpi della paura.
Il ragazzo cresciuto in Maryland diventa una minaccia assimilabile a quella di fanatici imam che hanno ispirato una generazione di attentatori «homegrown», cresciuti a due passi dagli americani onesti, ma qui non c’è l’elemento dell’islamismo radicale a spiegare lo scenario. C’è soltanto un ingranaggio umano impazzito nella grande catena di montaggio delle informazioni. Un ingranaggio per cui il presidente promette una caccia globale, i diplomatici minacciano vendette, i rapporti fra potenze si congelano e l’America si prepara a muovere cielo e terra.