Avete presente “La ricerca della felicità”? Bene, immaginatene l’evoluzione millenaria: avevamo lasciato Will Smith che da poveraccio cominciava la carriera da grande capitalista, ora è una specie di Napoleone dei cieli. Ma l’età avanza, qualche pensiero di troppo pure ci sta, e soprattutto il vecchio Will ha un problema: si è rotto. Le gambe, e sostanzialmente anche il resto. Per fortuna che i figli crescono, è finito il tempo della scuola, ormai sono cadetti d’accademia, e dunque…si sbattessero anche un po’ loro!
Quello che per esplosivo istinto di sopravvivenza, voglia di riscatto, senso di responsabilità familiare, Will faceva nella San Francisco primi anni Ottanta (correva, stramazzava al suolo, sanguinava, si lanciava, combatteva), il giovane figliolo Jaden in “After Earth” lo fa sulla Terra del 3000 e passa dopo Cristo: un luogo ormai spopolato, inquinato, inospitale, in cui l’imberbe capita per caso dopo un incidente intergalattico mentre stavano su una navicella in giro per il cosmo, lontani dal loro pianeta, quel pianeta dove gli uomini hanno reimpiantato la civiltà e dove Will è una specie di eroe popolare.
Al di là del contesto fantascientifico, tutto spiegato in un prologo francamente inascoltabile, resta un punto indiscutibile del film, e in generale della poetica smithica: la ricerca della felicità non prevede madri (quanto alle sorelle, per il senso di colpa che producono, sarebbe meglio non esistessero proprio). Qui solo roba maschile, un affare padre-figlio. Anzi un affare padre-figlio della famiglia Smith. Perché è evidente che l’operazione è costruita tutto intorno all’astro nascente Jaden, che papà Will, uno dei grandi boss della Hollywood odierna, vuole imporre, creandogli la successione nel mondo delle stelle.
Dopo tutto son partiti bene: “La ricerca della felicità”, per il quale Will da produttore chiamò con successo alla regia Gabriele Muccino scoperto con “L’ultimo bacio”, fece il botto ovunque. L’ultimo film di Jaden, nei panni di un Karate Kid nero, ha sfondato i 350 milioni di dollari incassati. Ora ci riprovano con questo “After Earth”, che in verità non è partito bene in America, ma che per il quale la famiglia Smith si è mossa come una falange macedone: Jaden protagonista, Will soggettista coprotagonista e produttore, mamma Jada produttrice, zio Caleeb produttore… Insomma, s’è capito che l’azienda sta pilotando il futuro, ma questa è roba da notai, da avvocati grandi firme, da super consulenti californiani… che c’entra un regista? Che c’entra il povero M. Night Shyamalan?
Sì perché tutto l’ambaradan di casa Smith è ricaduto su Shyamalan. Il quale sarà pure il mago indo-americano del “Sesto senso” (il senso degli affari?) e di almeno un altro paio di eccellenze (“Unbreakable” e “Signs”), ma qui ha dovuto gestire un pasticcio totale. Trovatosi sulla scrivania il soggetto di padre Smith (che, ripetiamolo, non ha fatto grand’uso di fantasia: “La ricerca della felicità” in salsa fantascientifica ad uso familiare), Shyamalan ha scritto la sceneggiatura insieme all’ex giornalista esperto di videogame Gary Whitta e poi ha dovuto armarci sopra questo centinaio di minuti di film (il che è una eccezione, e anche un bene visto l’esito: in genere ormai produzioni di questo tipo sfondano senza indugi e in abbondanza il muro delle due ore).
Zeppo di nomi orrendi (il ragazzo si chiama Kitai, il padre Cypher, il pianeta Nova Prime, l’esercito Ranger… oddio) e simbologie da strapazzo (l’astronave ha la forma di un cetaceo ed è tutto un citare Moby Dick, povera Moby Dick), il copione è un pianto. Detto questo, Shyamalan resta pur sempre il regista cui basta un tremar di foglia per far sobbalzare sulle seggiole. E alla pellicola (pellicola per modo dire, dal momento che il film è stato girato interamente con una cinepresa digitale all’avanguardia, la Sony F65 4 K) non mancano momenti visivamente straordinari: l’impatto con la selva oscura terrestre, abitata da belve malefiche, nere e veloci da essere quasi inafferrabili allo sguardo, sinistre presenze da inferno post-apocalittico; Jaden che cammina nella foresta che si gela a vista d’occhio; una tarantola che fa ingresso sulla mano di Jaden, e che inquieta ancor di più perché evidenzia l’inaffidabilità del padre infermo; il costume di Jaden che evolve cromaticamente, come la pelle di uno scarafaggio, a seconda delle situazioni in cui si trova.
Autentici pezzi di bravura, occorre dirlo. Che però non salvano questo fiacco film monofamiliare.