“Amore carne”, l’identità di Delbono in un film

Intimità e scena pubblica

Poteva essere un pretenzioso film amatoriale gonfiato a 75 minuti: senza attori, senza troupe, senza niente, giusto un telefonino e una telecamera da 300 euro, figuriamoci… Poteva essere la stirata litania di un uomo ossessionato dalla morte, la confessione autocompiaciuta di un sopravvivente a sé. Invece il corpo di Pippo Delbono, la sua voce, il suo sguardo girovago da attore in eterna tournée diventano il campo di questa mite battaglia cinematografica che trasfigura la paura della scomparsa in un bellissimo canto di amore e carne. Amore Carne è per questo un film indimenticabile.

Delbono scrive in presa diretta la cronaca di sé: un artista di teatro internazionalmente riconosciuto, un solitario, un omosessuale, un sieropositivo, un buddista. Espone questa materia in forma spudorata, senza censurare nulla della propria identità “irregolare”, così solida e insieme così fragile, ma insieme con un pudore della visione che evita ogni scandalismo, ogni provocazione. Che esplora, registrandolo, un privato che frulla persone, ambienti, situazioni di ogni tipo.

Deposta ogni pretesa di sceneggiatura che orienti in una direzione narrativa la sua vita, la scalettatura del racconto è un inseguimento di intimità e scena pubblica: i funerali di Pina Bausch, di cui Delbono è stato allievo; i primi piani sul suo occhio destro, responsabile della sua scelta di fare il regista per via delle cicatrici sulla retina che gli hanno cambiato il modo di vedere; l’ennesimo test dell’Hiv, fatto come una recita insieme a una inconsapevole dottoressa, dal momento che lui già conosce l’esito, lo conosce da oltre vent’anni; una sosta in un caffè storico mitteleuropeo, tra eleganti arredi in legno e un meraviglioso quartetto d’archi tutto femminile; l’incontro in cucina con la madre, anche lei malata seppur d’altra malattia, lei che è occasione per disseppellire il retaggio familiare nella natìa Liguria; la scena rubata di un ballo in provincia; il Natale dietro le vetrine urbane; paesaggio innevato ripreso da una camera d’albergo, insieme a Bobò, suo attore feticcio, sordomuto, strappato a un manicomio dove ha vissuto per mezzo secolo; negozi di bambole; malati psichiatrici in ricovero; Marisa Berenson e Tilda Swinton; il teatro di L’Aquila prima di essere distrutto dal terremoto; le prove con Marie-Agnès Gillot, étoile dell’Opera di Parigi; tragitto in metropolitana; i musicisti Alexander Balanescu e Laurie Anderson; paesaggi e autostrade; città, città, città; alta montagna. Fine.

Amore Carne è un piccolo poema intimo che dà forma alla voce interiore dell’autore impastandola con le parole di fratelli maggiori come Rimbaud, Pasolini, Eliot. Amore Carne è un esorcismo contro il fantasma della morte, e per condurlo accoglie la vita a partire dalla sua casualità, senza predeterminarla, recuperando la purezza e unicità del gesto che appartiene al teatro e che il cinema, nella forzata naturalezza della sua messinscena, non potrebbe restituire se non in questa personalissima forma leggera: senza la macchina del set, senza maestranze, senza scritture (nel senso di drammaturgia come di contratti per attori); solo l’autore col suo oggetto da ripresa e, di fronte, il mondo.

Delbono da ormai dieci anni frequenta il cinema vestendo lo stesso abito povero con cui ha cominciato e realizzato il suo teatro. Oggi ormai i suoi spettacoli di ricerca hanno conquistato i pubblici di tradizione del Piccolo, dell’Argentina, dei Comunali disseminati lungo lo Stivale, dei grandi teatri europei. E dunque chissà che pure il suo cinema non sia destinato allo stesso tragitto, magari attraverso le nuove tecnologie che cambieranno inevitabilmente e sperabilmente la fruizione (lo stato della distribuzione in Italia è tale che solo ora – grazie alla Tucker Film – esce Amore Carne presentato ormai già due anni fa alla Mostra del cinema di Venezia).

Intanto la figura di Delbono come attore è sempre più presente in sala. Scoperto dal grande schermo grazie all’importante film “milanese” di Luca Guadagnino Io sono l’amore, dove era il capitalista capofamiglia acquartierato nella splendida Villa Necchi Campiglio, ha recitato in Io e te di Bernardo Bertolucci, in Goltzius and the Pelican Company di Peter Greenaway, nel Cha cha cha di Marco Risi attualmente nelle sale; all’ultimo Cannes era in Henri di Yolande Moreau da protagonista e in Un château en Italie di Valeria Bruni Tedeschi. Vorrebbe tanto scrivere, dice, un manuale sul Lavoro dell’attore nel cinema perché nella settima arte vale ancora il metodo Stanislavskij «ed è un metodo messo a punto cento anni fa, oggi ci serve un nuovo modo di recitare, siamo in un’altra epoca».

Intanto sta per partire l’ennesima tournée per teatri del suo ultimo Orchidee, mentre è in post-produzione il prossimo lavoro cinematografico, Il sangue, un documentario che tiene assieme il racconto della morte della madre e il dialogo con l’ex brigatista rosso Giovanni Senzani: «Sarà un film sull’uccidere, da parte dell’uomo e della malattia», anticipa. Amore Carne è nei cinema italiani dal 27 giugno, in contemporanea con l’uscita in Francia.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter