Bersani, da sempre l’uomo sbagliato nel posto giusto

Diceva: «Posso fare il capitano o il mozzo della nave»

È oggi quel che avrebbe dovuto essere allora, ed era allora quello che dovrebbe essere oggi. Tragicamente sdoppiato, destinato a vivere fuori tempo, Pier Luigi Bersani non riesce mai a interpretare sé stesso nel momento giusto. Adesso insegue Massimo D’Alema e gli altri vecchi compagni, quelli che come lui furono prima comunisti e poi diessini, li arringa e prova a spiegarli che «dobbiamo restare uniti noi che ci assomigliamo», agita insomma un alito di guerra, appare risoluto e pronto alla contesa, fa squillare ogni tromba, allerta i fedelissimi Vasco Errani e Maurizio Migliavacca, tenta di riunire le truppe contro quel nemico che si chiama, oggi come sempre, Matteo Renzi, lui che punta al congresso del Pd ma «non è uno di noi».

E dunque Bersani, di fronte a D’Alema che ha quasi abbracciato il giovane sindaco, e di fronte a Walter Veltroni che da tempo ha lasciato i ranghi dell’esercito una volta comune, sembra proprio Enrico V alla vigilia della battaglia di Anzincourt, il generale che infonde un lirico coraggio ai suoi pochi uomini «chi vivrà questa giornata e arriverà alla vecchiaia, ogni anno alla vigilia festeggerà dicendo: ‘Domani è San Crispino’; poi farà vedere a tutti le sue cicatrici».

Bersani incrocia i giornalisti in Transatlantico, non era mai capitato di vederlo sollevare degli occhi fulminei e ripetere, fermo, «guai, guai ai partiti personali», e ancora: «Bisogna stare attenti al populismo, dobbiamo combattere il populismo che fermenta nelle nostre stesse botti». Era un uomo saggio e compassato mentre, appena pochi mesi, fa sul campo di battaglia elettorale esplodevano mine e venivano sganciate bombe; nello sfracello di una mancata vittoria elettorale, Bersani parlava bonario di giaguari da smacchiare, diceva che «al carisma preferisco l’affidabilità», e in maniche di camicia piegava uno sguardo benevolo su Beppe Grillo che intanto lo chiamava «morto che parla» e si offriva pure paternalistico a quel Renzi che già lo voleva rottamato.

Come niente fosse, stoico ed epicureo, il segretario attraversava scalzo il campo di battaglia, tra sangue e cadaveri, con l’aria imperturbabile dell’uomo che aveva vissuto, che sapeva molto, e che dunque non aveva nessuna voglia d’essere coinvolto negli eccessi, né dai vaffanculo a Cinque Stelle né dalla fronda che gli si agitava intorno nel Pd, «posso fare il capitano o il mozzo della nave, ma la nave non l’abbandono», diceva. E insomma Bersani era allora quello che invece dovrebbe essere oggi, mentre oggi prende un carattere guerresco che avrebbe dovuto tenere allora.

Si fa intervistare dal Corriere della Sera e annuncia la carica contro il nemico, «Matteo leader? È come se scrivessimo Briatore». E insomma Bersani dimostra oggi con Renzi una forza che pure lui stesso non ha avuto quando era necessaria, nei giorni in cui subiva sul serio gli assalti del sindaco, quando era ancora il segretario e poteva fare e disfare, comandare e puntare persino al governo. Adesso che non è più niente invece attacca, più duro di prima, quasi senza dissimulare tesse una trama complicatissima e cerca alleati, mentre l’altro, il ragazzo spavaldo, ormai neanche gli risponde più: non è necessario, Renzi fa spallucce come si fa con i vecchi bislacchi, con le cose trascurabili, che si vogliono annullare, non è più interessato a Bersani, adesso c’è Enrico Letta e la guerra si fa ovviamente soltanto contro i vivi.

Dunque vuole sguainare la spada, Bersani, adesso che invece dovrebbe mettere a disposizione dei compagni l’esperienza complessa e drammatica che ha vissuto, lui che aveva vinto le elezioni prima di vincerle e che le ha perse quando era impossibile perderle, quando cioè doveva avere quella forza di carattere da far esplodere le polveri del grillismo ancora prima di quando sono esplose. Un terribile giorno di febbraio – e chi non se lo ricorda? – subì a Montecitorio l’umiliazione dello streaming, circondato e sbeffeggiato dai sottopancia di Grillo. E più Crimi e Lombardi lo insultavano dileggiando lui, il suo partito e la politica tutta, più Bersani si faceva carezzevole e remissivo, abbassava lo sguardo e la voce di un tono, «voi dovete capire…», «anche voi comprenderete che…», l’Italia ha bisogno di…».

Eppure sarebbe bastato davvero poco per uscirne con dignità, persino vincenti, forse sarebbe bastato il Bersani di oggi, quello che vorrebbe riunire i diessini e battersi anche contro i mulini a vento. Sarebbe bastata anche soltanto una domanda, a bruciapelo, inattesa e spietata, chissà, di cultura generale, una banalissima domanda di diritto costituzionale per le scuole elementari e tutto si sarebbe sgonfiato in un attimo, come succede talvolta a teatro per effetto d’una pernacchia liberatoria: «ma lei, caro Crimi, lo sa quanti sono i deputati? Mi spiega, signora Lombardi, come si elegge il presidente della Repubblica?». Quelli sarebbero rimasti sospesi, con lo sguardo vuoto, intontiti, come quel tal senatore che non sapeva nemmeno dove si trovasse il Senato, «cercherò su Google».

Ma Bersani non riesce mai a interpretare se stesso nel momento opportuno, è sempre l’uomo sbagliato nel posto giusto. Questo ex-segretario emiliano, categoria che Togliatti non concepiva nemmeno («gli emiliani possono fare tutto, ma non i segretari del Pci»), è sempre fuori tempo. E si è ormai sdoppiato, come capita alle anime tormentate. Così, probabilmente, se il Bersani di oggi incontrasse quello di allora, ebbene, i due nemmeno si capirebbero, come accadde a William Willson, il doppio del racconto di Edgar Allan Poe, l’uomo che incontrò sé stesso e che, di fronte allo specchio, litigandoci, lo uccise uccidendosi. «Tu esistevi in me… ed ora… ora che sono morto, guarda in questa mia spoglia, che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso». 

Twitter: @SalvatoreMerlo

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