LONDRA – Il più antico torneo di tennis al mondo inaugura lunedì 24 giugno a Londra la sua centoventisettesima edizione, rinnovando l’annuale celebrazione di un mito sportivo come pochi altri: sacro, immutabile e inaccessibile, «Il Vaticano del tennis», come lo definì Giorgio Bassani, «un’isola nell’isola», secondo Mario Soldati.
Il potere magico di Wimbledon deriva proprio da quest’apparente indifferenza nei confronti del tempo, un’intrinseca classicità che lo fa sembrare immune alle urgenze di dover cambiare, espandersi, brillare sempre di più. Wimbledon che ha impiegato più di cento anni per togliere il «Miss» di fronte ai nomi delle tenniste scritti sui tabelloni, che ha sacrificato le palline bianche per quelle gialle, più telegeniche, solo dieci anni dopo che tutti gli altri tornei si erano arresi alle esigenze della Tv, l’unico torneo al mondo dove vige il celebre obbligo per i giocatori di vestire di bianco; Wimbledon che è stata la prima trasmissione televisiva a colori vista dai britannici, che fino al 2003 chiedeva ai tennisti l’inchino verso il box reale (obbligo ora ristretto solo all’eventuale presenza del Principe di Galles o della Regina), che si prende il lusso di non programmare alcun match nella domenica di mezzo e fa disputare tutti gli ottavi di finale in un solo giorno, sdegnando le programmazioni ben spalmate degli altri Slam in ossequio ai ricchi diritti televisivi. Si gioca su erba, una superficie ormai relegata a pochi tornei minori, completamente ininfluenti nel corso della stagione tennistica eccetto per queste due settimane al SW19, come viene chiamato per il codice dell’omonimo quartiere. Il nome ufficiale è addirittura The Championships, con la maiuscola enciclopedica a ribadire la proprietà sullo sport reclamata dal torneo inglese.
Un seducente anacronismo, per assurdo tenuto in vita da un’attenta e discreta modernizzazione dell’evento portata avanti negli anni: il tetto retrattile installato sul centrale dal 2009, che permette di giocare sotto le intemperie e anche fino a tarda sera se necessario, mentre a Parigi ancora si affannano a cercare un modo di ampliare lo Stade Roland Garros e dotare il centrale di copertura; il sodalizio con BBC, che anno dopo anno sembra sempre che stia per mollare ma poi continua a offrire un’amplissima copertura televisiva in chiaro degli incontri, oppure l’incremento del montepremi, con un 60% in più dato a chi esce ai primi turni, in sintonia con gli altri tornei del Grande Slam. In un luogo in cui persino il cambio del tabellone del punteggio sul Centre Court può essere un evento traumatico, ogni modifica o ritocco al modus operandi deve avvenire allo scopo di migliorare la fruizione di un luogo che soprattutto vuole mostrarsi sempre uguale a se stesso, nato perfetto.
L’adeguamento più subdolo e determinante è stato probabilmente la modifica dell’erba fatta nel 2001, che da una miscela di 70% di Lolium Perenne e 30% di Festuca Rubra è diventato 100% soltanto della prima. Sotto queste affascinanti nomenclature botaniche si cela una normalizzazione del comportamento del manto erboso, che nella nuova versione è più resistente, uniforme, ma anche più regolare e lento nel rimbalzo, questo a detta praticamente di tutti, tranne che dei giardinieri di Wimbledon. Fatto sta che l’erba in questi dodici anni ha mostrato un gioco sempre più simile a quello delle altre superfici, con scambi da fondo campo e una profonda ritrosia a prendere la rete da parte della stragrande maggioranza dei tennisti. Il gioco è diventato troppo veloce per trovare il tempo di avanzare, i rimbalzi troppo prevedibili per sfruttare i capricci dell’erba e attaccare l’avversario, la competizione troppo fisica per giocare solo di tocco.
Se n’è lamentato anche Roger Federer nella conferenza stampa prima dell’inizio del torneo: gli hanno chiesto della lenta scomparsa del rovescio a una mano tra le nuove generazioni, soppiantato ormai dal colpo a due mani meno vario ma più solido e che viene insegnato in giovanissima età. A Parigi agli ottavi di finale maschili a sorpresa c’erano otto rovesci a una mano su sedici contendenti, ai quarti ne sono arrivati ben quattro, ma alle semifinali nessuno. L’età media dei praticanti di quest’arte antica superava i 29 anni, praticamente una sentenza di morte. Il colpo a una mano, marchio di fabbrica dello svizzero, mal si adatta ai rimbalzi alti e alle velocità del tennis moderno. «Oggi puoi giocare nello stesso modo su terra, erba o cemento. Non credo che si pensasse a questo quando sono state fatte superfici differenti», ha risposto.
Federer arriva a Londra nella non facile situazione di un campione in carica che praticamente nessuno dà per favorito alla riconquista del titolo. Avara di successi la sua stagione fino a oggi, con un solo, piccolo titolo vinto sull’erba di Halle otto giorni fa, una programmazione rarefatta per proteggere i suoi 31 anni ma che ha comunque offerto performance poco brillanti, considerando che un palmares stagionale così risicato a questo punto della stagione Federer non l’aveva dal 2001. In più sulla strada verso la finale rischia di trovarsi Rafael Nadal già ai quarti, in virtù dell’anomala quinta posizione dello spagnolo frutto dei diversi mesi di assenza per infortunio, prima del suo ritorno lo scorso febbraio. Poi ci sarebbe Andy Murray in semifinale, con il numero uno Novak Djokovic, libero da scontri al vertice nella sua parte di tabellone, eventuale avversario in finale. Chiedere a Federer di battere tutti e tre per arrivare al titolo sembra davvero troppo, con Nadal che quest’anno ha già vinto sette tornei (tra cui il Roland Garros di due settimane fa), lo scozzese Murray che gioca in casa e Djokovic che ha vinto l’Australian Open a gennaio.
Diverso il discorso nel singolare femminile, dove la dominazione di Serena Williams appare come un dato di fatto: anche lei ha 31 anni, ma si trova nell’insolita situazione di regnare incontrastata come forse mai le era accaduto prima, in una fase della carriera in cui in genere si comincia a declinare, e per di più dopo un 2011 in cui è stata ferma per una serie di disavventure fisiche. Le altre non riescono neanche ad avvicinarla, possono solo attendere un suo calo, oppure provare a distrarla come ha fatto Maria Sharapova, sconfitta dall’americana nella finale dell’ultimo Roland Garros.
Appena arrivata a Londra Maria ha criticato Serena per dei suoi commenti apparsi su Rolling Stone a proposito di alcune top player noiose, poi interpretati dal giornalista come rivolti alla siberiana. Maria in un impeto bacchettone ha invitato Serena a pensare al suo compagno e allenatore attuale, visto che è padre e sta per divorziare dalla precedente compagna. Nell’apatica diplomazia delle interviste di rito queste dichiarazioni sono cadute come una manna per gli affamati giornalisti, ma che la vigilia del torneo femminile stia girando attorno a simile bisticcio è riprova di quanto scontato appare il risultato finale del torneo. Non è mai una buona idea far arrabbiare Serena, il campo l’ha dimostrato più volte.
Twitter: @FabSevero, @Wimbledon