Dando seguito a mesi di proclami e ad anni di dibattiti più o meno aspri, il Consiglio di Amministrazione di Telecom Italia ha finalmente deliberato la destinazione a una società separata della rete fissa di accesso, il reticolo di cavi – in rame e, per i più fortunati, in fibra ottica – che congiunge le centraline dell’operatore agli uffici e alle abitazioni degli utenti. Si tratta di una decisione importante, caldeggiata con tenacia da alcuni osservatori: inclusi – i lettori ci perdoneranno questo minuscolo autocompiacimento – noialtri dell’Istituto Bruno Leoni. Bene, bravi, bis.
C’è, ahinoi, un però. Il processo di societarizzazione va esaminato nell’ambito di una riflessione più ampia, che coinvolge temi come il finanziamento delle nuove infrastrutture, il contesto competitivo, il regime regolamentare: la nascita della newco incide sull’identità delle parti in causa, ma certo non estingue tali questioni. Insomma, la decisione odierna pone le basi per un’auspicabile evoluzione del mercato delle telecomunicazioni, ma di per sé non risolve alcuno dei nodi aperti. Chi controllerà la società della rete? Quali regole presiederanno alla sua governance? Queste sono le domande che determineranno il successo dell’operazione.
I modelli astrattamente ipotizzabili sono due. La strada maestra sarebbe quella di procedere, accanto alla separazione societaria, a una separazione proprietaria. Telecom potrebbe, cioè, mettere sul mercato la società della rete (o almeno una partecipazione di controllo), eliminando alla radice gli ovvi conflitti d’interessi che derivano dalla sua attuale configurazione di operatore verticalmente integrato. È questa una soluzione poco percorribile, per ragioni industriali – la rete porta ricavi e presidia l’indebitamento – e forse ancor più per ragioni politiche – imponendo di rinnegare le fole sull’italianità dell’infrastruttura e aprire con chiarezza a investitori di ogni colore e passaporto.
L’unica alternativa credibile a questo scenario è la definizione di una struttura di governance che assicuri indipendenza e trasparenza, sul modello Openreach: in questo senso, dice bene Carlo Alberto Carnevale Maffè quando ricorda che – pur prescindendo dal tema del controllo – è possibile mettere a punto meccanismi amministrativi e di gestione volti a garantire un’effettiva parità di accesso: l’esperienza inglese è lì a ricordarlo. Tuttavia, questa soluzione – rispetto alla separazione proprietaria – presupporrebbe una più assidua vigilanza dell’Autorità e una cultura regolamentare di cui, forse, il paese non è dotato. La sanzione recentemente comminata a Telecom dall’Antitrust è una lampante dimostrazione di come le regole funzionino assai meglio quando sono allineate agli incentivi e agli interessi dei soggetti che vi si dovrebbero conformare.
Quale dei due percorsi attende la società della rete? Non una separazione proprietaria, perché l’azienda ha chiarito che è disposta a diluire la propria partecipazione solo fino al 51% del capitale; ma neppure il puro modello Openreach, perché dietro l’angolo s’intravede l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti. Il risultato è che Telecom manterrebbe il controllo dell’infrastruttura, abbatterebbe una quota del debito grazie alla stampella pubblica e si preparerebbe a contrattare condizioni regolamentari più favorevoli, specialmente per la fibra: il tutto a fronte di concessioni ancora nebulose in fatto di governance. Ora, se è chiaro perché l’ex monopolista spinga per un simile epilogo, più problematiche sono le motivazioni dell’istituto di via Goito. Se la partita si gioca sul controllo, si abbia il coraggio di andare fino in fondo; se si gioca sulle regole, Telecom non ha bisogno di rinforzi. La terza via, però, potrà solo condurre un’operazione lungimirante e potenzialmente risolutiva all’ennesimo pasticcio gattopardesco.
articolo originariamente pubblicato su “Chicago Blog”, il 30 maggio 2013