Non sarebbe stato contento, Zeno Cosini: vietare il fumo nel “suo” Giardin pubblico, a Trieste. Sì, solo nelle aree dove giocano i bambini, ma che corbelleria. Alla fin fine lui di ultime sigarette se n’è accese un sacco, ci si è messo d’impegno per evitare di fumare.
«Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano».
Ma il protagonista di La coscienza di Zeno, così come il suo autore, Italo Svevo, mai riuscirà a smettere di fumare, anzi sarà sempre costantemente avvolto nella nuvoletta azzurrina della sigaretta accesa. Ora proprio a Trieste, ovvero nella città di Svevo (il suo vero nome era Hector Schmitz, che gli occupatori italiani ebbero il coraggio di trasformare in Ettore Samigli), il sindaco, Roberto Cosolini, ha emesso un’ordinanza: vietato fumare nelle aree pubbliche riservate al gioco dei bambini. Quindi anche all’interno del Giardin pubblico che Svevo frequentava quotidianamente e dove lo scrittore, assieme a molti altri, è ricordato da un busto.
Il fumo arretra, non c’è dubbio, le aree dove i tabagisti possono sfogare il loro vizio in santa pace sono sempre più ristrette. Una soddisfazione postuma per il nazismo. Eh già: i primi a promuovere campagne contro il fumo, a cercare di limitare il tabagismo furono proprio i nazisti. Ora, prima che si scateni il dibattito «anche Hitler ha fatto qualcosa di buono» (come diceva Benigni: «anche il mostro di Firenze avrà fatto qualcosa di buono, se incontrava qualcuno sulle scale gli avrà detto buongiorno e buonasera») è bene precisare che il fine della lotta contro il fumo dei tedeschi era preservare la purezza della razza ariana.
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Gli aspetti naturisti del nazismo non sono nuovi: di recente sono venute fuori un mucchio di foto degli anni Trenta di biondissimi e biondissime in versione open air mentre partecipano a campi nudisti (i nazi promuovevano pure il libero amore, che quei noiosoni dei cattolici volevano invece limitare, anche se il fine, in ogni caso, era identico: generare. Ovvio che il frutto dell’accoppiamento dovesse essere biondo, altrimenti meglio di no).
Propaganda nazista contro il fumo
Gli aspetti della lotta contro il fumo nella Germania anteguerra sono stati esaminati in un libro uscito in traduzione italiana qualche anno fa: La guerra di Hitler al cancro (Raffaello Cortina), dell’americano Robert Proctor, docente di storia della scienza alla Stanford University. Sia ben chiaro: nulla a che fare col revisionismo. Come precisa Giorgio Cosmacini in un articolo del Corriere della sera del 25 ottobre 2000: «L’autore stesso premonisce il lettore: “Non avrei mai scritto questo libro se non avessi già esplorato i più nefandi aspetti dei crimini nazisti in ambito medico”. Però assai meno noti sono gli aspetti medico-sanitari per cui il Terzo Reich si rivelò all’avanguardia in quelle politiche “salutiste” ed “ecologiche” – dalla messa al bando delle sostanze inquinanti fino alla martellante campagna contro il fumo – che oggi rappresentano il fiore all’occhiello di non poche democrazie avanzate».
Infatti direttive come: «La stampa popolare dovrà contenere avvertimenti contro i pericoli del fumo. La ricerca scientifica sugli effetti del fumo sulla salute va di pari passo con l’estesa promozione di attività salutari volte a ridurre la prevalenza dell’abitudine», oppure come: «Mezzi pubblici, ambienti di lavoro ed edifici pubblici diventano gli obiettivi delle campagne per la riduzione del fumo. È vietato fumare sul lavoro e in edifici pubblici, inclusi quelli governativi, e negli ospedali, incluse le case di riposo. È fatto divieto ai produttori di tabacco di fare pubblicità al loro prodotto, e di rappresentare il fumo come segno di distinzione», potrebbero sembrare attuali e invece si tratta di direttive sanitarie tedesche del 1937.
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«I maggiori esponenti nazisti in ambito medico», scrive Proctor, «temevano che il tabacco potesse rivelarsi un rischio per la razza». Ed esemplifica: «Gli attivisti antifumo sottolineavano che mentre Churchill, Stalin e Roosevelt apprezzavano molto il tabacco, i tre principali leader fascisti d’Europa – Hitler, Mussolini e Franco – erano tutti non fumatori».
Come è noto, Hitler era vegetariano, mentre Cristo mangiava carne: non bastano una dieta o un’astinenza a caratterizzare una persona. L’igienista nazista e docente di medicina all’universita di Jena, coniò il fortunatissimo slogan: «La donna tedesca non fuma», e un suo collega universitario, il ginecologo Paul Bernhard, scrisse nel 1942 un saggio dal titolo: «Gli effetti dei veleni del tabacco sulla salute e sulla fertilità della donna». Inutile precisare che i tedeschi avrebbero presto avuto ben altro a cui pensare rispetto ai veleni del tabacco.
Per la verità anche nell’Italia fascista, spiega Cosmacini, ci furono dei tentativi di legare il cancro alla razza. Il professor Nicola Pende, patologo medico alla Sapienza di Roma, scriveva nel 1938: «Uno dei fattori più importanti, che rientra nel campo della predisposizione costituzionale al tumore maligno, è il fattore razza». Firmatario nel luglio dello stesso anno del Manifesto della razza, che dava il la alle perscuzioni contro gli ebrei anche in Italia, Pende in questo caso se la prende però con «la razza alpina che, come è noto, popola gran parte del massiccio montuoso al centro della Francia e della Svizzera e un po’ anche la Baviera e l’Austria». Quindi un solido montanaro (curioso che nella “razza alpina” non includa i valligiani italiani) avrebbe, secondo lui, maggiori probabilità di sviluppare il cancro rispetto a un tarchiato mediterraneo o a uno slanciato abitatore delle pianure nord europee.
Il fascismo aveva portato a termine la lotta contro la malaria, simboleggiata dalla bonifica integrale teorizzata e iniziata dal socialista Silvio Trentin (originario di San Donà di Piave, una delle zone più malariche d’Italia) e ora rivolgeva le sue armi contro quella «malattia di carattere nazionale che è il cancro», definito definito «malattia anti-autarchica» oppure anche «bolscevismo cellulare».
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