Cairo, “Vittoria o martirio, saremo qui per sempre”

Accampamento oceanico a Rabaa el-Adaweya

I Fratelli musulmani non hanno nessuna intenzione di abbandonare il deposto presidente Mohammed Morsi al suo destino e di riconoscere il nuovo governo di Hesham Beblawi. Forti delle parole di leader politici europei e della Casa Bianca che chiedono la liberazione dell’ex presidente, attendono lunedì per una nuova manifestazione, dopo il bagno di folla dello scorso venerdì e dodici giorni consecutivi di occupazione permanente del quartiere orientale del Cairo, Medinat Nassr.

Da Giza al palazzo della Guardia presidenziale: gli islamisti difendono Morsi

«Tahrir è una piazza, noi occupiamo un intero quartiere», urlano i giovani con al petto una foto sbiadita di Morsi. Quanto a mobilitazione delle masse, la Fratellanza ha poco da imparare. L’occupazione delle strade circostanti la moschea Rabaa el-Adaweya ha l’aspetto di un accampamento oceanico. Centinaia di migliaia di persone dormono o fanno la spola dallo scorso 3 luglio, il giorno dell’enqelab, il colpo di stato militare.

Le manifestazioni degli islamisti sono decine in tutta la città. Uomini e donne pregano dinanzi all’Università del Cairo, a Giza. Qui, dopo l’annuncio della destituzione di Morsi, sono state uccise sedici persone e ferite 200. Ombrelloni, inferriate, cassette di canapa, transenne, cappelliere, tetti di giostre compongono l’improvvisata barricata che i poveri di queste strade contrappongono alle decine di carri armati dell’esercito. Qui Morsi aveva giurato il 30 giugno 2012, festeggiato da una folla immensa.

Ancora più evocativa di un declino repentino della Fratellanza è la scena che si vede, raggiunta la moderna sede del partito islamista Libertà e giustizia, nel quartiere di Moqattam. Un’alta inferriata era stata issata in fretta come per mettere in sicurezza un fortino, decine di sacchi di cemento, sistemati per proteggere le finestre, si vedono sparpagliati alla rinfusa. Campeggia uno striscione con i volti dei leader islamisti, dal murshid Badie a Khairat al-Shater, cancellati uno dopo l’altro. Per ore era durato l’assedio dei contestatori a questo palazzo e qui i magistrati sostengono che i leader della Fratellanza abbiano ordinato ai loro accoliti di sparare per allontanare la folla.

A Rabaa al-Adaweya sono sistemate le foto strazianti degli oltre 50 morti del palazzo della Guardia presidenziale, dove si dice Morsi sia detenuto. I venditori ambulanti promuovono cappelli e pantaloni comodi, la protesta è lunga e non violenta, mentre sono centinaia i ragazzi che innaffiano le teste e i corpi arsi al sole di uomini e donne. Alcuni leggono il Corano sotto alte tende, mentre gli alto-parlanti inneggiano a canzoni nazionalistiche. Era questo il segreto di Hassan Al-Banna, primo leader della Fratellanza: unire all’islamismo la difesa della nazione, da questo viene la motivazione per difendere l’identità pan-islamica dell’Egitto. «Il mio voto non conta», recita uno degli striscioni, mentre un ragazzo mostra il volto del capo delle Forze armate, Abdel Fattah Al-Sisi, grondante di sangue. Qui tutti gridano: «Sisi, Sisi, Morsi raisi» (Sisi, Sisi, Morsi è il mio presidente). Ci sono decine di donne, tutte con il velo. «È un golpe contrario alla legge islamica», inizia Hend. Ma poi si corregge: «Sono qui per difendere la democrazia e sarei venuta per qualsiasi altro presidente arrestato dai militari».

La versione delle violenze tra i sostenitori della Fratellanza

Si avvicina anche Jihan e mostra un video inquietante in una delle moschee intorno al palazzo della Guardia presidenziale. «Mentre pregavamo, polizia e polizia militare hanno lanciato gas lacrimogeni, è iniziata la sparatoria nel cortile della moschea. Un giovane agente si è rifiutato di sparare e un altro poliziotto lo ha ucciso per questo. A quel punto, blocchi di cemento hanno impedito ai feriti di essere trasportati verso gli ospedali e neppure le ambulanze potevano raggiungere quel luogo», racconta impaurita la donna. Fonti mediche parlano di colpi sparati alla rinfusa e cadaveri colpiti alla testa, al torace: nessuno sforzo è stato fatto per risparmiare delle vite.

Molti giovani di Tamarrod (ribellione) accusano gli islamisti di detenere una grande quantità di armi, parte del traffico di munizioni proveniente dalla Libia e non solo. «La nostra arma è il Corano», ribatte Radwa che si avvicina per dire la sua. «Sono i ribelli (già la parola dovrebbe far pensare all’uso che fanno della violenza) ad aver imbracciato i kalashnikov quando sono iniziati gli scontri intorno a piazza Tahrir lo scorso venerdì», rincara Ibrahim. Eppure Morsi ha commesso degli errori. «Sì, con il decreto presidenziale che ha avviato lo scontro con i giudici e nella scrittura della Costituzione», ammette Jihan. «Vittoria o martirio», «saremo qui per sempre»: urlano da un capannello dei ragazzi che marciano dietro un camion battendo un tamburo. Ma Radwa non concorda: «Tutti hanno criticato il decreto di Morsi (del novembre 2012, ndr) che era un puro atto rivoluzionario. La dichiarazione di Mansour (presidente ad interim, ndr) è invece inaccettabile, sovverte il voto popolare, sono dei nuovi dittatori», aggiunge.

«Stanno tentando di denigrarci come hanno fatto con i giovani rivoluzionari, ora siamo dei «terroristi», hanno mostrato dei video relativi a scontri del 2011 o della guerra in Siria, per accusarci di detenere armi: è assurdo!», aggiunge Ibrahim. A Tahrir, i Fratelli vengono descritti come khirfan (pecore) dai movimenti laici. Qui le opposizioni sono considerate composte da feloul (uomini del vecchio regime) o kuffar (infedeli). I volti di questi attivisti hanno attraversato giorni di battaglia, iniziati con l’assassinio ingiustificato di quattro uomini il giorno del golpe, colpevoli solo di tenere tra le mani i poster di Morsi. La storia di Mohamed Sobhy ha dell’incredibile. Stava sistemando un poster dell’ex presidente sulle barricate di fil di ferro quando lo hanno colpito alla testa. Questo gesto ha messo in luce in modo inequivocabile le responsabilità dell’esercito nell’uso della violenza.

La più grande forza popolare organizzata in Egitto si trova di fronte ad un bivio, ma ha già ben chiaro il costo enorme della partecipazione politica che in breve tempo può emarginare un movimento che ha segnato la storia di questo Paese. 

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter