Da duemila anni ci passa la crema del mondo: imperatori, potenti, rivoluzionari, artisti, eccentrici, di varie latitudini. Sedotti, con diverse fantasie, da questa roccia piccola, rupestre, perduta e sospesa nel mare. Capri. Spiegano le guide turistiche che questo scoglio fu una specie di capitale, un’altra Roma interamente marina. Il che è anche vero, peccato che sia sostanzialmente inutile saperlo. Perché i resti archeologici sembrano più un impiccio che un bene: infatti sono quasi (o senza quasi) in abbandono.
Villa Jovis, la residenza da cui Tiberio diresse l’impero negli ultimi anni della sua vita e che domina il Golfo di Napoli, è stata per mesi chiusa, con l’estate si sono riaperti i cancelli ma basta vedere gli orari, di rigorosa cecità burocratica, per rendersi conto della scarsa impraticabilità: dalle 11 alle 17. Cioè in coincidenza con le ore più calde del giorno, durante le quali, prima ancora che la visita, ci si dovrebbe sobbarcare il lunghissimo e non agevole tragitto pedonale che conduce agli scavi.
Peggio, molto peggio tocca all’altra villa tiberiana, Damecuta, sulla parte opposta dell’Isola, ad Anacapri, che è chiusa (con cancelletto rigorosamente rotto) dalla Sovrintendenza che non riesce a gestirla per mancanza di fondi. Ci sarebbe quasi da rimproverare di troppa generosità Axel Munthe, il medico svedese autore della Storia di San Michele (uno dei libri più diffusi e letti del Novecento), grandissimo personaggio della Capri del secolo scorso: abitava nella sua Villa San Michele, da appassionato archeologo a Damecuta scoprì i resti della residenza imperiale, vi si trasferì e approntò i primi scavi. Giunto alla fine della vita, pensò bene di donare Villa San Michele allo Stato svedese, Damecuta a noi italiani: il risultato è che la prima è un prezioso centro culturale, oltre che frequentatissimo museo (a guidarne il lavoro come soprintendente sarà l’ex viceministro montiano Staffan de Mistura), e invece Damecuta è aggredita da erbacce, ridotta a panorama privilegiato per immancabili picnic abusivi sotto la pineta.
Legambiente, spiega il responsabile locale Nabil Pulita, ha provato a gestirla con i volontari: pronta la protesta del sindacato che – dal canto suo, giustamente – reclama invece assunzioni di custodi. Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, ha annunciato che a breve si sbloccheranno i fondi per il personale (dopo il blocco delle visite al Colosseo). Vedremo. Anche perché il problema non è solo Damecuta: poco più giù c’è, o meglio ci sarebbe, Villa Gradola, sbocco a mare della residenza principale, così vicina alla Grotta Azzurra: per cercarla oggi ci vorrebbero dei ghostbuster forestali, visto com’è sepolta e persa nella boscaglia.
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Chissà cosa avrebbe pensato il vecchio Amedeo Maiuri, un padreterno dell’archeologia italiana, di cui proprio quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla morte: a lui, che peraltro ha completato e attrezzato nientemeno che Pompei ed Ercolano, si devono i moderni scavi delle ville imperiali capresi. Oggi le sue scoperte versano nel peggiore stato. Chissà cosa scriverebbe, se dovesse comporre un altro dei suoi molti bellissimi libri sull’isola, conosciuta in ogni angolo e in ogni suo personaggio, a partire dai due suoi ospiti più grandi e potenti, Augusto e Tiberio. L’uno – scrive Maiuri nel Breviario di Capri – «datore di pace e di ricchezza», da cui Capri «è argutamente ribattezzata con il nome aristofanesco di Apragopoli, la città del dolce far niente; se ne fa eroe fondatore un liberto, il mauretano Màsgaba, e per lui l’imperatore improvvisa, mentre giace di notte nel triclinio con poche persone del seguito, tra cui il cupo Tiberio e l’astrologo Trasillo, trimetri giambici di una grottesca solennità laudativa».
Diverso invece il caso di Tiberio, «grande imperatore, odiato, diffamato e sventurato», militarmente chiuso dentro «l’eremo di potenza e di dolore» di Villa Jovis. Conclude Maiuri: «Pochi monumenti della Roma imperiale vivono di una così possente tragicità quanto i ruderi del Monte Tiberio ancora animati dall’ombra del calunniato imperatore. Sventurato chi cerca lassù, su quel nido di falchi, nella malata fantasia, le schiocche maldicenze, le stupide malvagità della cronachetta di corte; da quella vetta non si pensa che al Campidoglio e al Palatino».
Ozio, libertà, dolce far niente, piacere; e potere, inquietudine, oscurità. Due sfere sentimentali intrinsecamente connesse nella storia di Capri e dei suoi personaggi. Nei quali spesso si incontra, qui più che altrove, l’idea dell’affermazione di sé nella proiezione edilizia. La personalità fatta casa. Ne scriveva Bruce Chatwin nella Anatomia dell’irrequietezza, riferendosi a Curzio Malaparte, Axel Munthe e il barone Jacques Adelswärd-Fersen. Tre uomini «che si mettevano al centro della ribalta», che vollero «case del sogno» dove speravano di «vivere, amare e operare prodigi creativi, ma che nonostante lo scenario idilliaco erano contaminate da un’atmosfera morbosa affine a quella dell’Isola dei morti di Böcklin». Fersen nella appartatissima, scandalosa Villa Lysis; Munthe nella già ricordata Villa San Michele; Malaparte nella Casa Come Me, «triste, dura, severa, come me», scriveva commissionandola all’architetto Adalberto Libera, un lampo rosso su Capo Massullo, coi Faraglioni a un passo: scenario di un film celeberrimo di cui si celebra oggi il mezzo secolo, Il disprezzo di Jean-Luc Godard da Moravia, con una Brigitte Bardot al colmo della sensualità.
Non stupisce che lo status della villa a Capri rimanga tuttora inalterato, non solo sul versante del nostro più forte capitalismo (la lista degli affluentissimi proprietari di case capresi e soprattutto anacapresi è assai lunga), ma anche su quello estero. Ricerca di aristocratica tranquillità (con evasioni anche mondanissime) e asserzione di potere riconosciuto, perfino crocevia per gli affari.
Tuttavia è pacifico affermare che oggi Capri non sappia più produrre quella incredibile materia da mito più o meno popolare. Resta certamente l’evocatività del nome, un suono vagamente esotico, per certi versi neocoloniale, vezzo edonistico-commerciale che fa aprire innumerevoli ristoranti Grotta Azzurra e bar Anacapri tra l’Australia e la Florida, per non dire di anglofone pornostar artisticamente ribattezzate Sydnee Capri, Capri Cavalli, Kissy Capri, Kim Capri e via capreggiando.
Sostanzialmente è cambiato il calibro del fascino esercitato. Su chi la sogna da lontano, senza magari mai esserci venuto. Su chi ci viene da sempre, come gli americani e i tedeschi, le due nazionalità baluardo del turismo estero caprese, affezionati ai loro panorami e ai loro alberghi; e su chi ci viene da poco, come gli emergenti brasiliani, i russi con le loro serate costosissime, i giapponesi ordinati nel loro escursionismo munito d’ogni ritrovato high tech.
D’estate l’isola è circondata da un autentico muro a mare fatto di yacht e pescherecci, anche perché è l’unica a non avere l’area marina protetta (associazioni locali si stanno muovendo per ottenerla dal ministero dell’Ambiente, ma la vicenda va per le lunghe). E il centro di Capri è in mano ai negozi di lusso, una concentrazione di sfarzo e articoli pregiati che non ha pari: intere famiglie vivono (e benissimo) coi profumatissimi affitti griffati. Fa niente che quando la giostra chiude ci sia solo vento e silenzio per le strade.
Resiste, facendo caparbiamente cultura, Riccardo Esposito, editore e libraio in Capri con La Conchiglia, che spiega il grande cambiamento in atto sull’isola con la “sindrome di King Kong”, il desiderio del turista di essere rassicurato dai non-luoghi uguali dappertutto come i negozi delle griffe messi in fila in via Camarelle (al pari di King Kong che confonde il grattacielo con la sua perduta montagna insulare). I non-luoghi rischiano di mangiarsi i luoghi, ed è un fenomeno che si rafforza sempre di più: Esposito ne parla in un suo bel libro intitolato L’isola del dio nascosto.
Gli studi sui flussi turistici parlano chiaro. È cresciuto il numero delle persone che vengono a Capri solo per restare in alberghi super accessoriati, o per fare shopping, o per «rimettersi in forma», o semplicemente per “esserci”, anche solo per due ore, in un’estraneità più o meno totale all’isola. Cinque stelle e mordi-e-fuggi: in mezzo il nulla, il vuoto pneumatico che spoglia l’isola di identità. Naturalmente non si tratta di prendersela con le griffe e relativo commercio, ci mancherebbe. E tuttavia i processi vanno governati, non subìti. La vera scommessa a questo punto è che l’isola non sia vissuta come «un bel museo delle cere o come melanconica Leucade o, al contrario, come capitale del divertimento, ennesimo luna park della mondanità griffata o, ancor peggio, come una delle tante tappe di una infinita e massiva crociera, da visitare in un’ora, tutto compreso (anche il lunch)», è la conclusione dell’editore.
Un’analisi del Censis, commissionata non molto tempo fa dalle associazioni di categoria locali, avvertiva: il turismo di Capri rischia di essere sempre più eterodiretto, gestito da fuori, in particolare dal porto di Napoli. Capri e Anacapri, a livello regionale, non riescono ad avere voce in capitolo sul governo dei traffici marittimi, che sono sostanzialmente in mano a Gianluigi Aponte, l’armatore che possiede il colosso Msc. Non sarà che Aponte sta silenziosamente diventando il vero padrone di Capri? Un altro big dato qui in espansione è Antonio D’Amato, ex presidente di Confindustria, di cui si parla per grossi progetti di investimento immobiliare nel territorio di Anacapri.
Di certo c’è che sta cambiando pesantemente l’area di Marina Grande, sempre più piattaforma commerciale: dove partono i barconi per itinerari intorno all’isola, vista così solo da lontano senza che i turisti ci mettano piede perché rientrano a fine tour subito a Napoli; dove si appalesano i divi dei nostri tempi ossia i super chef stellati coi loro locali nuovi di zecca (nel caso di specie, Vissani ed Esposito); dove i negozi hanno ormai i semafori all’entrata per regolare il transito di clienti; dove s’accende l’orda di pullman (si parla dell’immissione di cinquanta nuovi mezzi di nuove compagnie), auto private, macchine aziendali, motorini, che per tutta l’alta stagione paralizza l’isola per ore e ore, anche a causa delle poche e strette e non sempre ben tenute strade dell’isola.
Cos’è Capri? Domanda oziosa, non se la fanno nemmeno più i capresi: è una ruota che gira, un brand mondiale, una bellezza mozzafiato, una storia mutevole più del mare. «Capri e non più Capri», scriveva Raffaele La Capria. Presagio, chissà, che forse si avvia a diventare semplicemente una constatazione.