Nel paese in cui nessuno legge ma tutti hanno scritto un romanzo, nell’Italia che ha perso la sua grande letteratura e che non esporta più un libro, i premi letterari sono settemila. Settemila imbrogli nelle mani degli editori che ogni anno si mettono d’accordo, battagliano, litigano, si strappano i capelli, e poi si spartiscono il premio che ovviamente è per definizione “prestigioso”; oggi tocca alla Rizzoli, domani alla Bompiani, magari l’anno prossimo lo facciamo vincere alla Mondadori. Strega, Campiello, Viareggio, Bagutta, Bancarella, Pozzale, Frignano, Grinzane Cavour, Mondello, e poi centinaia di Polifemi d’oro, limoni d’argento, cassate di bronzo, non c’è comune e regione, organizzazione e associazione strapaesana, privata e pubblica d’Italia, che non abbia istituito un premio, che non intenda ricompensare e promuovere la nostra cultura nazionale, ormai spacciata soltanto nei confini sempre più angusti del familismo provinciale. Gli stranieri i nostri libri non li comprano, non li leggono, non ne parlano, e un motivo ci sarà, basta chiedere all’Istat per scoprire che dei nostri scrittori super premiati, in Francia e in Germania, in Inghilterra e in America, non sanno che farsene; dell’intera produzione letteraria esportiamo appena il 3 per cento. Ma tra di noi ci premiamo molto.
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E incidentalmente capita pure che a conquistare questo premio così ambito sia un bel libro, talvolta succede, e non dubitiamo di Walter Siti neo vincitore del premio Strega, ma il bel libro premiato è un caso, appunto, un incidente del destino, uno sgarro di calcolo nell’abaco della mediocrità, perché non c’è lettore che in libreria quando si imbatte nel romanzo vincitore del premio Strega o del Campiello, inarchi le soppracciglia sospettoso: “non è che sarà anche questa un’altra marchetta?”.
E d’altra parte i grandi scrittori italiani – tutti morti – guardavano con sufficienza i mille premi letterari che pure ricevevano (per denaro) nel paese più analfabetizzato d’Europa: «in Italia i premi non basta rifiutarli, bisogna non meritarli», diceva Leo Longanesi. E quando l’Italia era ancora un paese capace di premiare Ennio Flaiano e Dino Buzzati, Alberto Moravia e Vitaliano Brancati, quando cioè esistevano la letteratura e pure quel magico fermento di fantasia che si chiamava cinema, ebbene Dino Risi, era il 1963, scatenava il suo sarcasmo contro il premio Strega, la sua fondatrice Maria Bellonci, il circo dell’imbonimento letterario tutto. E chi non ricorda Vittorio Gassman travestito da donna nei Mostri di Dino Risi, gambe lunghissime e fisico prorompente, maga circe in carriera, la musa, la creatrice di fortune letterarie, la femmina Gassmann che faceva vincere il gran premio della scrittura a un contadino pugliese suo amante: «Dopo quello che abbiamo letto quest’anno il premio non dovremmo nemmeno assegnarlo»; «eh, sì, bravo, così l’azienda autonoma di Fiuggi ci dà il ben servito a tutti». E lei, il Gasmann travestito, donna avvolgente e minacciosa: «Ho trovato una cosuccia meravigliosa, fidatevi di me, qui c’è un talentaccio, anche se rozzo, afro persino, ma c’è»; «Ma chi, quello? E’ completamente sgrammaticato!»; «Ah, ma siamo ancora alla grammatica qui? Non è proprio da te dire queste cose, chi se ne importa della grammatica! Su su, adesso votiamo, e non voglio vedere più questi votacci bassi. Chi non è con me è contro di me».
E insomma è tutto uguale, eppure tutto diverso, i premi erano degli imbrogli anche nel 1963, ma la letteratura italiana era viva, gagliarda, riconosciuta nel mondo, quell’anno Primo Levi pubblicò “La Tregua”, Beppe Fenoglio “una questione privata”, Gadda scriveva “la cognizione del dolore”, Italo Calvino faceva scoprire il talento di Leonardo Sciascia, e ancora si leggeva con meraviglia l’opera postuma di uno scrittore sconosciuto, “il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, milioni di copie vendute in Europa e in America, tanto che nel 1963, quando Luchino Visconti girò il suo famosissimo film, a recitare il ruolo del protagonista, il principe di Salina, venne in Italia la più grande stella del cinema holliwoodiano, Burt Lancaster, accanto ai giovani e sensuali Alain Delon e Claudia Cardinale.
La letteratura è morta e sono rimasti soltanto i premi, i settemila imbrogli che, come una pestilenza, un morbo contagioso, hanno avvolto di mediocrità e di familismo la nostra povera letteratura in decadenza. Sui quotidiani un tempo si leggevano persino stroncature, erano anche queste un genere letterario, si poteva dire che un libro fa schifo, e non solo per ragioni di antipatia personale nei confronti dell’autore, non soltanto per ragioni di appartenenza a questo o quel salottino d’intellettuali, o per antiche ruggini, ma così, spassionatamente, per la semplice ragione che quel romanzo tanto decantato, in realtà, è come la corazzata Potemkin per Fantozzi: una cagata pazzesca. Ed è davvero difficile per un italiano contemporaneo immaginare come un giornalista potesse stroncare i libri tanto premiati dai Campiello e dagli Strega, ma in effetti esisteva la stroncatura limpida, disinteressata, pulita, e insomma non c’era soltanto la recensione marchetta, prostituita, quella che in poche righe viene solitamente sintetizzata sulle bandelle che fregiano i troppi libri premiati, “un romanzo d’eccezione”, “il grande romanzo del nostro tempo”, “questo romanzo è già un classico”, “apre degli squarci di realtà nel nostro mondo così effimero”.
E gli italiani se ne accorgono, e infatti sempre di più comprano i libri stranieri tradotti e lasciano negli scaffali i vincitori dei settemila premi letterari d’Italia; nel 2011 sono state pubblicate cinquanta milioni di copie di libri stranieri, il venti per cento della produzione totale, in continua crescita. Mentre le case editrici, che un tempo scoprivano talenti, le stesse che oggi si accapigliano per il premiuccio, pigramente si limitano a tradurre (spesso male) la letteratura americana. E quel lavoro che un tempo era affidato alle Fernanda Pivano, ai Fruttero&Lucentini, ai Calvino e alle Elsa Morante, cioè i traduttori e gli editor, che pure scrivevano ed erano loro stessi dei maestri della letteratura, oggi nelle case editrici è un mestiere mal pagato; di risulta. Dunque se una volta era possibile che Calvino, leggendo, finisse con lo scoprire Leonardo Sciascia e “il giorno della civetta” per regalarli alla gioia dei lettori, adesso gli scrittori italiani copiano, come usano dire gli anglosferici, “i trend” internazionali. E non c’è paese nel mondo in cui vengano scritti così tanti romanzi gialli e thriller come in Italia, avete mai provato a fare un rapido calcolo mentale di quanti polizieschi vengono scritti nel nostro paese? Non c’è poliziotto, magistrato, uomo politico, funzionario di stato che non pubblichi un romanzo giallo, persino l’ex capo della polizia, il defunto e compianto prefetto Manganelli, ne ha scritto uno postumo.
Nel paese in cui non si scopre mai l’assassino di nessuno, da quello della povera Yara Gambirasio ai mandanti del mostro di Firenze fino ai dubbi sul caso Cogne, nel paese dove la verità giudiziaria non esiste ma tutto è sempre un mistero come a Ustica e come a Capaci, i poliziotti e i magistrati scrivono romanzi gialli. E ovviamente anche per questi esiste la paccottiglia dei premi letterari, “premio gran giallo città di Cattolica”, “Garfagnana in giallo”, “premio Azzeccagarbugli”, “nebbia gialla”, “giallo all’italiana”… Ecco, ci vorrebbe una moratoria, come quella sulla pena di morte, anche la letteratura avrebbe bisogno di Marco Pannella, basta con i premi.