Abbassare un debito pubblico che è sempre più elevato. È questo lo scopo del governo italiano. Non si sono ancora visti gli effetti del piano contro la disoccupazione che l’esecutivo di Enrico Letta già pensa a come ridurre quel fardello da oltre 2.000 miliardi di euro che pesa come un macigno sulle spalle del Paese. Ancora una volta torna una cifra: 400 miliardi di euro. Era questo il valore della proposta di Alessandro Profumo, ex numero uno di UniCredit e ora a guida di Monte dei Paschi. Ed è questo l’ammontare del piano taglia-debito di cui si sta discutendo ora. Ma aldilà dei facili entusiasmi, sarà quasi impossibile che si possa pensare di avere successo nel lungo termine con misure una tantum.
Non è solo una questione di rapporto fra debito e Pil. È anche e soprattutto una questione di riduzione dell’indebitamento in valori assoluti. Il problema è comprendere in che modo l’Italia possa evitare di tornare nella stessa situazione odierna – crescita assente o anemica, alto debito e scarsa competitività – nel medio-lungo termine. Sul piatto oggi c’è la creazione di un veicolo finanziario privato capace di scendere sui mercati obbligazionari per vendere bond con asset pubblici a collaterale. Un’idea che potrebbe essere buona, avverte a Linkiesta un analista di Société Générale, ma che potrebbe naufragare dato che non si sa quali beni abbiano realmente un mercato. Il tutto senza contare che non sarebbe da prevenzione per eventuali derive future sul fronte del debito pubblico. «Sarebbe solo una panacea temporanea», dice l’analista transalpino.
Il piano su cui si muove la nuova proposta taglia-debito è fortemente inclinato. Il programma di Renato Brunetta e raccontato dal Corriere della Sera prevede quattro differenti voci di entrata, in un arco temporale quinquennale. La prima, quella più diretta, è la vendita di beni pubblici per circa 100 miliardi di euro. In pratica, una reminiscenza del piano messo in piedi dall’ex ministro delle Finanze Vittorio Grilli, che vedeva la possibilità di cedere immobili e asset per una cifra compresa fra i 15 e 20 miliardi di euro l’anno. L’obiettivo, tramite questa iniziativa, è ridurre il debito pubblico di un punto percentuale di Pil ogni anno. Un target criticato in modo indiretto dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nell’aprile 2012, quando il piano Grilli fu presentato.
La seconda voce di entrata è data dalle concessioni demaniali. L’obiettivo è quello di racimolare una somma fra i 40 e i 50 miliardi di euro tramite la costituzione di società per questo genere di operazioni. I beni del demanio potrebbero quindi finire in mano estera, un elemento che potrebbe essere funzionale alla valorizzazione delle aree con più potenzialità di sviluppo. I dubbi sulla sua efficacia vertono sulla capacità di attrazione dell’Italia, che potrebbero essere minori del previsto, in caso di mancato successo dei road show del governo. Un’esperienza già vissuta in passato.
La terza voce è invece relativa a un accordo fiscale con la Svizzera, in modo da ottenere fra 25 e 35 miliardi di euro. Un risultato positivo su questo versante, tuttavia, non deve essere dato per scontato. Dopo aver aperto il dossier nel corso del 2012, sotto il governo di Mario Monti, le trattative fra Roma e Berna si sono arenate. Pochi giorni fa, un nuovo passaggio è stato fatto. Invece che su un piano nazionale, i negoziati saranno condotti su base comunitaria. Un quadro che potrebbe giovare poco all’Italia, in quanto da armonizzare con il resto dei Paesi intenzionati a raggiungere un accordo con la Svizzera.
Infine, il capitolo più importante, quello che dovrebbe portar nelle casse dello Stato una cifra compresa fra i 215 e i 235 miliardi di euro. Lo stratagemma di Brunetta è semplice. Dopo aver individuato asset disponibili, lo Stato li cederà a una società terza, di natura privata e partecipata da attori privati quali banche, assicurazioni e altre entità societarie. In questo modo, il veicolo di nuova creazione potrà scendere sul mercato ed emettere obbligazioni aventi gli asset ex statali come collaterale a garanzia. La durata media prevista per questa tipologia di bond sarà di 15-20 anni, al termine dei quali (o in scadenze previste dai singoli contratti obbligazionari) chi ha acquistato questi titoli potrà esercitare un diritto di prelazione sui singoli asset usati come collaterali. Dato che secondo la legislazione italiana tali emissioni, poiché portata sul mercato da soggetti privati, possono non rientrare nel computo generale del debito pubblico italiano, i proventi possono essere utilizzati per abbassare il livello generale del debito stesso. Un modello simile quindi a quello della tedesca Kreditanstalt für Wiederaufbau (Kfw), un’entità paragonabile alla Cassa depositi e prestiti presente in Italia. Ma fino a che punto si può pensare di aggirare le regole comunitarie per abbassare il debito pubblico non è dato saperlo.
Le prime reazioni non sono state positive. Parlando con Linkiesta un alto funzionario della DG Ecfin della Commissione europea preferisce «attendere proposte concrete», ma non può che osservare come «una soluzione di questo genere non sia esattamente la migliore auspicabile». Il motivo è facile da intuire. Piuttosto che ridurre il debito attraverso iniziative una tantum, occorre un piano di riduzione della spesa pubblica, unito a un ripensamento dei singoli fattori di crescita. Ne è convinta la banca americana Goldman Sachs, che ha detto nei mesi scorsi che l’Italia ha bisogno di incrementare la propria competitività se vuole uscire dalla peggiore crisi dal Secondo dopoguerra. A fronte di un Pil in costante flessione e di una crisi occupazionale che sta costringendo il governo guidato da Enrico Letta a una corsa contro il tempo prima che il tempo sia ultimato, le esigenze dovrebbero essere anche quelle di lungo termine.
La stessa diagnosi, con le stesse soluzioni, è giunta anche dalla banca angloasiatica HSBC. A fronte di tante buone intenzioni, la riduzione del debito italiano tramite operazioni straordinarie non risolverà il problema di fondo, ovvero la sostenibilità nel lungo termine. Per fare questo, meglio optare sulle riforme strutturali per rinnovare il Paese dopo decenni di inazione governativa. «Senza riforme, l’Italia non può pensare di uscire dall’attuale quadro», dice HSBC.
C’è poi la Banca centrale europea (Bce) di Mario Draghi. Ancora una volta l’ex numero uno della Banca d’Italia ha ricordato che «il consolidamento fiscale era ed è inevitabile». Non solo. Come ripetuto fin dal primo suo discorso come presidente della Bce, Draghi ha sottolineato che l’Eurotower non può e non deve sostituirsi ai governi nella loro opera di riforma. Non solo. Non ci devono essere scorciatoie in questo processo. Anche se per ora non ci sono state reazioni da parte della Bce, è facile immaginare cosa potrebbe pensare della nuova proposta taglia-debito per l’Italia. In sostanza, un suggestivo esercizio di stile che però non risolve i problemi strutturali del Paese.