Chi sarà la prossima preda, Cavalli o Versace? O addirittura il gioiello della corona, Giorgio Armani? Perché la campagna d’Italia non è finita con Loro Piana, anzi. L’industria della moda e del lusso tirata ormai soprattutto dall’estero – anzi, da Cina ed estremo oriente dove si vende oltre un terzo del fatturato mondiale – è in pieno consolidamento, come dicono gli economisti, cioè sta traversando una fase di concentrazione non nuova (è cominciata davvero nella seconda metà degli anni ’90), ma che la crisi ha accelerato.
Crisi, cambiamento, selezione. In greco e in cinese queste parole hanno lo stesso significato (e gli stessi ideogrammi). Fin qui nulla di male, ma il fatto è che la grande caccia ha di mira l’industria italiana. Il perché è semplice: in Italia ci sono marchi di eccellenza, un abbigliamento super, una qualità produttiva inarrivabile da qualsiasi altro concorrente per decenni a venire. È un dato di fatto. E c’è una forte dispersione delle aziende e dei brand, una proprietà ancora familiare, una valutazione di mercato bassa, troppo bassa rispetto al vero valore, e nessuna resistenza alle offerte, soprattutto se succulente come quella di LVMH ai fratelli Loro Piana: ben due miliardi di euro.
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Qualche cifra e qualche nome. I grandi gruppi mondiali classificati in base al fatturato e non alle mutevoli valutazioni di borsa, sono dominati dal francese LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) che fa capo a Bernard Arnault e colleziona ormai 60 marchi. Seguono Richemont, holding svizzera creata dalla famiglia sudafricana Rupert (Cartier, Montblanc, Van Cleef&Arpels, Dunhill, Jaeger Le Coultre, Vacheron Constantin, solo per citare i più grandi), Ralph Lauren, Tiffany, Hermés (insidiata da LVMH che ne possiede il 17%), Kering di François Pinault, partito dalla grande distribuzione (magazzini Printemps) ed entrata nel club soprattutto grazie all’acquisizione di Gucci. LVMH è nettamente in testa con un fatturato che raggiunge quota 25 miliardi, Pinault è a 12 e Richemont a 9 miliardi.
I cavalieri nazionali sono guidati da Armani, Prada, Max Mara. Fino all’anno scorso c’erano Bulgari (passato a LVMH) e Valentino (controllato da Mayhoola, finanziaria del Qatar). Tutti gli altri, a cominciare da Tod’s, fatturano sotto il miliardo. Armani ha raggiunto per la prima volta due miliardi nel 2012, ma arriva a quasi sette, superando così l’arcirivale Ralph Lauren, grazie a indotto e franchising.
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Il volume di fuoco degli italiani, dunque, è debole, anche se la loro qualità è altissima. Questo è il primo problema, assolutamente fondamentale nella guerra del lusso e in qualsiasi guerra di mercato nella quale le munizioni sono i quattrini. Si possono naturalmente occupare posizioni strategiche. Si può diventare indispensabili, requisito fondamentale nella strategia industriale della nuova competizione mondiale. Ma le posizioni bisogna tenerle. E si tengono con le salmerie, cioè con la distribuzione, e con una fornita santabarbara, alias finanza.
Lo dice con grande chiarezza Andrea Illy, il produttore di caffè di qualità, presidente di Altamarca: «Nel segmento di alta gamma devi curare tre aspetti: il primo è la creatività e la manifattura dei prodotti, il secondo è la distribuzione e il terzo è la finanza e la governance. Noi siamo maestri sul primo punto. I francesi sugli altri due».
Dunque, i Loro Piana non potevano resistere. È di opinione diversa Brunello Cucinelli diventato un primattore negli abbigliamenti di cachemire, la fibra nella quale proprio i lanieri biellesi sono ai vertici mondiali nella scala della qualità. Dichiara a Repubblica: «Per non vendere si può andare in Borsa», come ha fatto lui stesso. E gli è andata bene. Ma nemmeno Cucinelli avrebbe potuto mettere insieme due miliardi sull’unghia per liquidare «gli amici Loro Piana». Tanto meno Diego Della Valle che molti accusano di giocare con il Corriere della Sera invece di impedire la vendita all’estero di marchi d’eccellenza. In borsa capitalizza 3,5 miliardi, ma il suo fatturato non arriva a un miliardo. Non poteva certo svenarsi.
La questione della taglia, in sostanza, resta decisiva. Va bene la strategia dell’eccellenza – che, secondo Marco Fortis, è fondamentale per ristrutturare e ricollocare l’industria in un paese avanzato come l’Italia. Tante micronicchie, però, non producono un effetto potenza senza il quale oggi non si regge più la concorrenza mondiale. Ciò vale ovunque, anzi in primo luogo nel comparto che trascina le nostre esportazioni e dove siamo tra i primi al mondo: che non è, a differenza da quel che credono le vittime dei luoghi comuni, la moda e il cibo, ma la meccanica (macchine e componenti per l’industria).
Il lusso e la moda sono settori strategici, sia chiaro. In una economia occidentale che punta sulla crescita di nuove classi medie affluenti, i Paesi che sanno produrre «cose belle che piacciono al mondo», come diceva lo storico Carlo Maria Cipolla, hanno in mano un poker d’assi. I francesi lo hanno capito per primi. Non hanno chiesto sovvenzioni pubbliche (anche se hanno agito su influenze e amicizie politiche), ma hanno seguito un approccio di sistema.
Un ruolo chiave spetta a imprenditori ambiziosi e amanti del rischio come i due eterni nemici Arnault e Pinault, ma senza il sostegno continuo e robusto delle banche amiche non sarebbero andati da nessuna parte. E senza governi (di destra soprattutto, ma persino socialisti) pronti a sostenere le loro strategie di espansione internazionale, in particolare in oriente. Finanza e distribuzione, insomma. Non ha senso pretendere l’intervento pubblico magari attraverso il Fondo strategico della Cassa depositi e prestiti, che deve pensare ad altro. Del resto, agisce come un fondo di private equity, dunque non può acquistare ai valori di Lvmh che invece compra senza scadenze”, ricorda ancora Illy.
Lo stato protettore e lo stato salvatore, le due forme storiche dell’intervento pubblico in Italia, hanno dato risultato incerto, discutibile e solo nel breve termine, come ricorda un bel saggio di Luciano Cafagna sulla storia economica. È sempre mancato lo stato promotore che ha funzionato bene altrove sia pure in forme diverse (negli Stati Uniti con il complesso tecnologico-militare, in Francia con il neocolbertismo, in Germania con l’intreccio banca grande industria, ecc.). Ma questa variante dell’intervento pubblico, ammesso che sia possibile e auspicabile, non s’improvvisa.
È una riflessione che dovrebbe fare il governo italiano. Non ha la bacchetta magica né può agire in un lampo là dove per decenni nessun governo ha saputo mettere mano. Ma si deve sempre cominciare, magari riunendo attorno a un tavolo gli operatori, le banche, la Sace che assicura l’export e che ora fa capo alla Cdp.
Presentando i risultati del 2012, Giorgio Armani ha detto che lui intende mantenere nel Paese «il design, i prototipi e la definizione degli standard qualitativi. L’alta moda si fa qui». Ma «le istituzioni aiutano poco e bisogna contare solo sulle energie individuali. Gli imprenditori hanno bisogno di una situazione politica stabile, di operazioni di incentivazione e di un sistema fiscale più limpido ed equo».
Parole da sottoscrivere. Eppure proprio il campione italiano per eccellenza è destinato a un futuro incerto. Ha tenuto sotto il suo diretto e stretto controllo l’intero gruppo. E ha ottenuto risultati eccellenti. Ma non ha successori diretti né intende aprirsi ad altri investitori, nemmeno istituzionali. Su di lui da tempo ha messo gli occhi Arnault (una dozzina di anni fa, mentre era in corso la battaglia con Pinault per acquisire Gucci, si parlava addirittura di una opzione), ma anche Pinault si è messo in stand by. Chi non lo vorrebbe, del resto? Se si arrivasse a uno showdown, l’Italia dovrebbe difendere Armani? E come? Lasciamo la questione aperta. Chissà che il ministro Zanonato non abbia qualche idea?
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