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Fino all’ultimo giorno l’edizione 2013 di Wimbledon ha voluto giocare con la propria storia, beffandola e scrivendola al tempo stesso: dopo aver incoronato di sabato Marion Bartoli, la prima tennista a vincere il singolare femminile senza aver dovuto incontrare nessuna tra le prime quindici teste di serie del torneo (e senza cedere neanche un set), la finale maschile ha visto Andy Murray vincere 6-4, 7-5, 6-4 contro Novak Djokovic, che diventa così il primo cittadino del Regno Unito a vincere a Londra nel singolare maschile dopo la vittoria di Fred Perry nel 1936.
«Lo sai che sei il primo britannico a vincere Wimbledon in pantaloni corti?», gli hanno chiesto in conferenza stampa dopo il match, ed è forse la migliore sintesi per esprimere quello che è accaduto oggi all’All England Club. Per anni la stampa gli ha fatto pesare le sconfitte, le occasioni mancate, con quel gusto perverso del self-deprecating che è una specialità inglese, il cui apice è ovviamente l’amore/odio verso la nazionale di calcio e le sue tribolazioni, ma che ha avuto in Murray un altro bersaglio facile.
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Scozzese quando perde, britannico quando vince, questo è il cliché con cui si è sempre riassunta l’indole dell’opinione pubblica verso il ventiseienne di Dunblane, al punto che ci sono voluti anni perché il pubblico del Centre Court lo sostenesse fino in fondo. Ancora durante la finale persa contro Federer nell’edizione passata la folla era equamente divisa, nonostante fosse la prima volta che un britannico arrivasse in finale, sempre da quel fatidico ’36. Poi c’è stato il discorso subito dopo la sconfitta, quel «I’m getting closer» pronunciato da Murray tra le lacrime che ha smosso qualcosa nei cuori algidi del pubblico elitario delle finali londinesi.
Il cambiamento si è compiuto poi con la medaglia d’oro vinta neanche un mese dopo sullo stesso prato, e lì il pubblico era diverso, democratizzato dallo spirito olimpico e tenacemente attaccato alla bandiera, portando dentro il Centrale un tifo partigiano come non si era mai visto. Si pensava fosse per il pubblico particolare dei giochi olimpici, una folla diversa e soltanto di passaggio, ma la vera differenza quest’anno l’ha fatta il supporto rumorosissimo ricevuto da Murray, che ha generato un fattore campo inedito sia nella semifinale vinta contro il polacco Jerzy Janowicz che nella partita di oggi.
Finale che per quanto vinta tre set a zero non si può definire un match a senso unico, a cominciare dalla durata di 3 ore e 11 minuti, di certo non abituale in un incontro che finisce in straight sets. Molti scambi da fondo lunghissimi in uno scontro continuo tra le estreme capacità difensive dei due avversari, che ha ricordato le maratone che Djokovic ha affrontato negli ultimi anni contro Rafael Nadal, molti break di servizio, causati dall’estrema abilità in risposta di entrambi. Di certo Djokovic ha pagato l’epica semifinale di 4 ore e 44 minuti vinta in cinque set contro Juan Martìn del Potro, il miglior match del torneo, e si è visto in diversi momenti come i suoi colpi non avessero l’abituale profondità e decisione, e anche più semplicemente dalle troppe palle corte giocate negli ultimi game della partita.
Il solo terzo e ultimo set ha visto cinque break di servizio nei primi nove game giocati, dopo di che Murray ha servito per il match. Lì è cominciato un dramma nel dramma, con lo scozzese che prima va 40-0, viene recuperato e si trova costretto a annullare quattro palle break prima di ritrovarsi con un altro match point a disposizione. Sarà quello buono, che chiude il torneo con un rovescio in rete di Djokovic dopo un breve scambio.
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Al «game, set and match» Murray incredulo girovaga per il campo, solo dopo un po’ corre verso il player’s box e fa l’ormai tradizionale scalata degli spalti per andare a abbracciare il suo allenatore Ivan Lendl – che finalmente vince Wimbledon per interposta persona dopo non esserci mai riuscito come giocatore – e il resto del suo team. In conferenza stampa gli chiedono come mai non sia subito andato dalla squadra, vogliono sapere chi guardasse nei primi momenti di celebrazione. Lui molto candidamente risponde: «Nessuno in particolare, guardavo in direzione di alcune persone in tribuna stampa, penso sia stato qualcosa di inconscio».
Che il primo punto in cui si guardi dopo aver vinto Wimbledon sia dove siedono i giornalisti la dice lunga su quanto sia stato difficile per Murray digerire le accuse di eterno incompiuto e perdente di professione ricevute per anni. Da oggi tutto è cambiato, e per sempre, non solo nella serenità con cui Andy potrà guardare (o ignorare) i giornalisti connazionali, ma anche negli equilibri tra i cosiddetti Big Four del tennis maschile, ovvero i due finalisti di oggi più Federer e Nadal.
Da lunedì lo svizzero sarà addirittura quinto nella classifica mondiale, come non gli accadeva da dieci anni, mentre Rafa sarà al quarto posto. Uno è osservato speciale per l’età, visto che a agosto compirà 32 anni, l’altro per le sue ginocchia fragili, che tutti attendono al varco della stagione sul cemento americano. Come l’anno scorso, che ha visto un vincitore diverso per ognuno dei quattro tornei dello Slam, anche quest’anno sinora i majors sono andati uno a testa a Djokovic, Nadal e Murray. L’anno scorso il quarto fu di Federer, quest’anno viste le tribolazioni del Maestro è lecito chiedersi se l’U.S. Open di fine agosto andrà a arricchire i successi di uno degli altri tre oppure celebrerà qualche nuovo campione.
Intanto piovono su Twitter le congratulazioni a Murray di tanti colleghi, ma dopo qualche ora continuano a latitare quelle di Nadal e Federer: il primo nel suo tweet più recente preferisce parlare delle chance di Fernando Alonso nel Mondiale, l’altro ha annunciato che tra qualche giorno tornerà sui campi di Amburgo, torneo minore (su terra battuta per di più) infilato di corsa nel calendario per mettere una pezza all’uscita repentina da Wimbledon.
Vedremo se nei prossimi giorni pagheranno tributo al collega vincitore, e se quest’estate rientreranno nel gruppo di testa oppure dovranno lasciare spazio ai due che si sono incontrati in finale nel Wimbledon più imprevedibile che si ricordi.
A Dunblane, cittadina natale di Murray, in Scozia, scoppia la festa (Andy Buchanan/Afp)
Orgoglio scozzese a Dunblane (Andy Buchanan/Afp) Clicca sulla foto per ingrandirla