Lo avevamo anticipato mercoledì sera: il presidente Giorgio Napolitano, personalità rotondamente politica, a cuore freddo, avrebbe anteposto il realismo delle larghe intese alla necessità di repulisti sullo scandalo Shalabayeva. Avrebbe anteposto la ragion di stato alle omissioni di stato contenute nella scassatissima linea difensiva pro Alfano eretta dal prefetto Pansa e sposata in toto dal premier Enrico Letta nonostante la brutta denuncia delle Nazione Unite, come fossimo un paesello centro-africano (detto con il massimo rispetto).
Ieri durante la cerimonia del Ventaglio Napolitano lo ha ribadito: l’affaire kazako è un fatto inaudito ma il governo va avanti, deve restarne al riparo: in tempi di crisi e di turbolenze la stabilità è tutto; staccare la spina non si può, si produrrebbe un danno irrecuperabile, almeno fino a dopo il semestre italiano di presidenza Ue (1° luglio – 31 dicembre 2014). Poi, a quel punto, si vedrà. Probabilmente lo stesso anziano presidente chiuderà il sipario sulla sua lunga stagione al Quirinale, prolungata oltre tempo per la manifesta incapacità della politica di rinnovarsi e darsi un assetto minimamente ordinato e costruttivo.
Eppure il cinismo politico e razionale di una personalità che ci ha salvato dal default nel novembre 2011 e traghettato de facto in una dimensione presidenziale della storia repubblicana – se le riforme le trascini senza farle mai sono giocoforza gli eventi a plasmare i nuovi assetti -, lascia sul campo un interrogativo che non possiamo non sollevare. Pur con tutto il realismo del caso e la comprensione delle larghe intese quale medicina amara per blindare una classe politica matta, provinciale e inconcludente, avevamo capito che il matrimonio riluttante tra diversi (Pd e Pdl) si giustificasse con l’emergenza economica e le riforme impellenti da fare in un paese perennemente sul filo del baratro: legge elettorale, spending review per tagliare le tasse e ridurre il debito pubblico, efficientamento della macchina pubblica e investimenti in ricerca e formazione. Invece a quasi tre mesi dal suo insediamento questo governo onestamente sta facendo poco o nulla, anche al netto delle mattane di Berlusconi e del fattaccio kazako. Continui rinvii, rimpalli stucchevoli sulle tasse, confusione a più voci, un «decreto del fare» che è poco più di un pannicello caldo senza nemmeno il guizzo dei provvedimenti d’urgenza e minacce una dietro l’altra: se non togliete l’Imu cade il governo, se Berlusconi viene condannato cade il governo, se fate dimettere Alfano cade il governo, se tagliate la spesa (improduttiva) i sindacati occupano le strade, e se tanto cadesse il governo ne faremmo un altro targato Pd con un drappello di Cinque Stelle (sic). Ogni volta che si esce dal seminato c’è sempre qualcuno o qualcosa che mette una zeppa. E più il governo si fa irretire dai veti contrapposti, più il coraggio scivola sotto le scarpe, più le voci fuori campo interessate a tenerlo a stecchetto o a farlo deragliare, pesano e si fanno sentire: che siano Renzi o Berlusconi non fa differenza.
Su Linkiesta lo abbiamo detto a più riprese: appena dopo il voto di febbraio, visto il pareggione elettorale, scrivemmo che la via maestra era fare un governo di scopo che cambiasse la legge elettorale e tornasse al voto proprio per evitare la sindrome Monti, cioè un altro giro di “larghe intese” appoggiate da alleati riluttanti indisponibili a votare le riforme necessarie. Passata l’elezione rocambolesca del nuovo-vecchio inquilino del Colle, a fine aprile al momento dell’insediamento di Enrico Letta scrivemmo invece “velocità e riforme, la sfida di un governo fragile”. Fragile perchè incalzato a sinistra dal ciclone Grillo e dalle ambizioni confliggenti di Matteo Renzi; a destra da un Berlusconi braccato dai magistrati. Dunque solo giocare in contropiede, con spirito garibaldino, lo avrebbe salvato.
Invece arrivati a metà luglio non si vedono affatto cambi di marcia, anche solo per sfidare il bluff di partiti in apnea, che sbraitano e minacciano crisi e sfracelli senza averne la forza. Il governo sembra il classico esecutivo balneare da Prima Repubblica mentre la crisi non smette di mordere, il debito pubblico galoppa, le agenzie ci tagliano il rating e il paese resta aggrappato esclusivamente all’ombrello della Bce. Con buona pace di Bruxelles, stizzita per l’estenuante teatrino italiano.
Per questo ci chiediamo se la stabilità tanto evocata dal Colle, e la silhouette di un premier che di certo ha il dono di non polarizzare gli animi (oltre che una faccia rassicurante), siano da considerarsi valori in sé, un totem inscalfibile senza nemmeno quel barlume di riformismo che dovrebbe giustificarli. Stabilità per fare cosa se poi tocca passare le giornate a litigare, troncare, sopire e fare figuracce internazionali? Sicuri che il paese si possa permettere “larghe intese” per fare poco o niente, al limite comprare un po’ di tempo, galleggiare alla meglio o addirittura rischiare di sfasciare lo stato e la sua (residua) reputazione pestando scandali come quello kazako? Sicuri che il gioco della stabilità per la stabilità tra alleati riluttanti e ricattabili, quasi fosse un feticcio, valga comunque la candela o non sia un modo letargico per uccidere comunque il paese? Forse la domanda è meglio cominciare a porsela seriamente…