Nel giugno del 2012 la situazione dell’eurozona era drammatica. L’incremento del rischio di convertibilità dell’euro continuava e non sembravano esserci delle vie d’uscita dalla peggiore crisi che la moneta unica avesse mai vissuto. Due fra le voci più prominenti dell’universo finanziario, il direttore generale del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde e il finanziere George Soros, preconizzarono un’implosione dell’area euro nel caso non fossero state introdotte riforme cruciali. Di fronte all’immobilismo dei policymaker europei, le vie potevano essere due: o la disgregazione o un sussulto. È giunto quest’ultimo, per merito della Banca centrale europea e di Mario Draghi. Il banchiere italiano, lo scorso 26 luglio a Londra, pronunciò infatti la frase che per ora ha cambiato la storia, fin troppo recente, dell’euro. «La Bce è pronta a tutto per preservare l’euro. E credetemi… sarà abbastanza», disse Draghi. Quando pronunciò il “Whatever it takes” fu il momento in cui tutto si cristallizzò.
Gli effetti della strategia di Draghi sono stati netti. Le tre parole pronunciate dall’ex governatore della Banca d’Italia sono state perentorie. Eppure, nei giorni successivi al 26 luglio di un anno fa, la prima risposta dei mercati finanziari fu tiepida. C’era fiducia in quel “Whatever it takes”, ma fino a un certo punto. Troppi erano stati i bluff, soprattutto quelli dei policymaker europei, per potersi fidare completamente. E solo a settembre fu chiaro il piano che poi avrebbe cristallizzato i mercati finanziari fino a oggi. Il discorso di Londra fu il preludio al lancio delle Outright monetary transaction (Omt), il programma di acquisto di bond governativi sul mercato obbligazionario secondario che ha sostituito l’obsoleto Securities markets programme (Smp) dopo la mancata promessa degli impegni da parte dell’Italia fra agosto e novembre 2011.
I dati parlano da soli. I mercati hanno ridato fiducia all’area euro. Come dimostrano i dati Thomson Reuters-Datastream, dal 26 luglio 2012 chi ha investito nei titoli azionari del comparto Financial dell’indice Euro Stoxx 50 ha guadagnato oltre il 45 per cento. Per chi è andato sui tecnologici di quell’indice, il ritorno è stato del 32%, mentre pochi decimali più sotto troviamo i settori dei servizi di consumo e industriale, anch’essi a ridosso di un guadagno del 30 per cento. I benefici maggiori, tuttavia, dovevano essere in alcuni Paesi. Il target di Draghi erano soprattutto Italia e Spagna. Se fosse caduto uno di questi due Stati, per l’eurozona sarebbe stato l’inizio della sua disgregazione. Nessuna alternativa, solo un obbligo. Salvare Roma e Madrid.
Inutile negarlo: la Spagna ha performato molto meglio dell’Italia. L’indice MSCI Spain ha registrato ritorni prossimi al 38%, risultando il migliore dell’eurozona, poco sopra al MSCI Greece, recentemente declassificato a mercato emergente. Meno spumeggiante la situazione del MSCI Italy, in ascesa del 26% dal 25 luglio di un anno fa. Colpa dell’incertezza politica prolungata e della sempiterna difficoltà italiana ad applicare le riforme strutturali richieste a gran voce da Commissione Ue, Bce e Fondo monetario internazionale. A trarre giovamento delle Omt ci sono stati gli indici MSCI di Germania e Francia, entrambi con ritorni superiori al 30 per cento. Niente male per due Paesi solo lambiti dalla parte più virulenta della crisi dell’eurozona.
Il sollievo maggiore, secondo i piani di Draghi, sarebbe dovuto arrivare sul mercato obbligazionario. «Mettere in sicurezza Italia e Spagna era l’imperativo, nessuno poteva permettersi che un’asta di Roma o Madrid andasse lunga o deserta», dice a Linkiesta un alto funzionario della Bce dietro anonimato. Il risultato è che «chi ha scommesso contro l’euro ha perso molto più di quanto potesse immaginare». Al contrario, se un investitore avesse puntato sui bond decennali di Italia e Spagna avrebbe guadagnato, rispettivamente, il 22% e il 30 per cento. Molto più rispetto allo 0,5% di ritorno dei Bund tedeschi a dieci anni nello stesso intervallo temporale. Almeno nel breve periodo, il fly-to-quality non ha funzionato. Anzi.
Il rischio di una disgregazione della zona euro non è ancora finito. Due sono i Paesi possibili candidati a questa evenienza che tanto sembra remota: Cipro e Grecia. Non è un caso che proprio queste due nazioni siano quelle in cui gli esperimenti di risoluzione della crisi siano stati più frequenti. E non è un caso che Atene e Nicosia rappresentino i due unici esempi di ristrutturazione del debito sovrano nell’area euro, la prima nel 2012, la seconda poche settimane fa. È sempre più difficile che Atene possa tornare all’equilibrio finanziario in assenza di un surplus primario che è sempre più lontano e un rapporto debito/Pil proiettato oltre il 180 per cento, secondo i dati del Fmi. O meglio, è difficile che possa farlo senza una nuova ristrutturazione del debito sovrano, coinvolgendo questa volta i creditori ufficiali (che detengono circa il 70% del debito complessivo, 306 miliardi di euro) e mettendo in atto l’Official sector involvement (Osi) tanto spinto dal Fmi. Se ne riparlerà solo dopo le elezioni tedesche. Sia per la Grecia sia per Cipro, la cui situazione è analoga.
E poi ci sono tutte le altre sfide. La prima, quella più grande: mettere in sicurezza l’universo bancario della zona euro. Se l’unione bancaria è l’obiettivo finale, l’approccio della Germania sul meccanismo di risoluzione e su quello di vigilanza centralizzata non è certo producente. La reticenza del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble nel sottoporre le banche teutoniche al controllo macroprudenziale della Bce è elevata. E forse solo dopo le elezioni tedesche di fine settembre si potrà pensare di andare avanti con un modello di unità bancaria che da solo, secondo gli osservatori, sarebbe in grado di dare un segnale di fiducia senza precedenti agli investitori internazionali.
Le altre partite si giocano sui singoli piani nazionali. Come ripetuto quasi a ogni occasione pubblica da Mario Draghi o dai suoi colleghi, la Bce non può e non deve sostituirsi ai governi nell’adozione delle riforme strutturali che questi necessitano. Può agire solo nei limiti del suo mandato, quindi controllando il tasso d’inflazione, e stop. Non può aiutare gli Stati, non può obbligarli a migliorare le condizioni del credit crunch all’interno delle singole aree economiche, fattore che ha amplificato le differenze strutturali fra il cuore e la periferia della zona euro. Può però mettere in campo tutte le misure affinché questo avvenga, come fatto pochi giorni fa tramite un allentamento dei requisiti sulle Asset-backed security (Abs) utilizzabili per le operazioni fra istituti di credito ed Eurotower. Difficile che avvenga qualcosa di rilevante, avvertono gli analisti delle banche internazionali. Colpa di un mercato defunto. Ma qualcosa potrebbe comunque muoversi, nonostante sia una goccia nel mare.
La ragione ufficiale per cui sono state lanciate le Omt è la rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria della Bce. Ma ben presto si è capito che lo scopo era quello di mettere a punto un sistema di controllo del panico e dell’aggressività degli investitori, unito a una netta condizionalità per tutti quei governi deboli e incapaci di gestire il processo di riforme di cui hanno bisogno. L’intervento delle Omt è infatti subordinato a condizionalità dettate dalle Enhanced conditions credit line (Eccl), le linee guida del fondo salva-Stati temporaneo European financial stability facility (Efsf). Queste usano lo schema dettato dal Fmi in casi analoghi, cioè il Precautionary credit line (Pcl). Secondo le linee guida che dovrebbero fungere da base del memorandum of understanding delle Omt, per ora ancora mai sperimentate, ci sarà una verifica trimestrale dei progressi compiuti. In parole povere, un modello simile a quello della troika (Ue, Bce, Fmi) usato in Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna (per il settore bancario) e Cipro. Basterà per tranquillizzare gli investitori? È questa la grande incognita, tutt’ora irrisolta, del piano di Draghi per salvare l’euro lanciato proprio un anno fa.