Una mostra pronostica la fine dell’Unione europea

A Bruxelles

C’era una volta un gruppo di nazioni che aveva messo da parte le rivalità, chiuso nel cassetto della memoria il concetto di guerra, fissato regole, obiettivi e strategie comuni. I Paesi commerciavano tra di loro senza che vi fossero barriere doganali e a un certo punto decisero di compiere un passo ulteriore: oltre alle merci, fecero circolare liberamente anche i capitali, i servizi e le persone. Alcuni di loro scelsero addirittura di rinunciare alle proprie prerogative nazionali per battere una moneta comune. Poi la stabilità divenne lassismo, la prosperità pigrizia e, mentre il mondo attorno cambiava in maniera sempre più repentina – un processo chiamato da tutti globalizzazione – quelle nazioni si dimostrarono incapaci di adattarsi ai tempi. Sapevano quale fosse la cosa giusta da fare, ma tentennavano, perché non riuscivano a giustificarlo davanti ai rispettivi elettorati. Così cominciarono a pensare che da solo avrebbero vissuto meglio da soli. E si lasciarono.

Benvenuti nella fu Unione Europea, anno del Signore 2063. Sono passati 55 anni dal collasso di questo ambizioso progetto politico, caduto sotto il peso delle proprie contraddizioni. Più di mezzo secolo rappresenta un lasso di tempo ragionevole per guardare sine ira ac studio a quella straordinaria avventura, coglierne in retrospettiva pregi e difetti, raccontare la storia della sua implosione. Un compito raccolto, con notevole sforzo di abnegazione, dai Friends of a Reunited Europe.

Ovviamente siamo nel campo della distopia. Gli amici dell’Europa unita non sono altro che una compagnia teatrale di Bruxelles, il Royal Flemish Theatre, che ha organizzato «la prima mostra internazionale sulla vita nell’ex Unione Europea». Ha aperto lo scorso giugno nella capitale belga e riprenderà a settembre. Non è un’esposizione in senso classico, ma una vero e proprio percorso – lunghezza, un’ora – in cui si viene catapultati nell’Unione di inizio millennio, come se ai giorni nostri si trascorressero sessanta minuti nell’America di Kennedy o nell’Urss di Krusciov.

Il pamphlet consegnato ai nostalgici viaggiatori nel tempo, Storia dell’Unione Europea in esilio, riassume bene lo spirito dell’iniziativa. Dimenticate Mario Borghezio e Geert Wilders. I protagonisti dell’iniziativa non sono euroscettici, bensì europeisti convinti, desiderosi di lanciare un allarme per scuotere il continente dalle sue paure e dalle sue esitazioni. Quale linguaggio più immediato del teatro, quale stile più diretto del grottesco? E allora via alle deformazioni artistiche, come una gigantesca pila di carta, simile a una colonna greca, a rappresentare l’Acquis Communautaire, il mastodontico corpus legislativo della Ue, norme, regolamenti e così via (317.000 pagine nel 2017, un anno prima del crollo, si legge nella didascalia).

Un poster celebra il Nobel per la Pace ottenuto nel 2012, due mappe raccontano la genesi della caduta. I killer, si sostiene, furono due, l’estremismo e il separatismo. Accanto alla voce estremismo, compaiono la greca Alba Dorata, il fiammingo Vlaams Belang, la Lega Nord. E i separatismi regionali? Alcuni di loro ebbero talmente successo da raggiungere l’agognato traguardo dell’indipendenza: Scozia, Corsica e Catalogna.

La chiave di volta fu la crisi dei debiti sovrani scoppiata nel 2011. Qui il motto della Ue, “Unità nella diversità” mostrò di pendere in una sola direzione, la seconda: «Per effetto della Grande Recessione divenne chiaro che in pochi avevano imparato dal passato, e che tutti avevano dimenticato il significato della guerra. In tempi difficili, i demoni del passato si dimostrarono più contagiosi del sogno di un’Europa unita».

Un progetto ucciso dagli egoismi nazionali, insomma, che trionfarono alle elezioni europee del 2014. I partiti dell’estrema destra, che intendevano sottrarre a Bruxelles i poteri devoluti nei decenni precedenti, raccolsero consensi in tutto il continente, avviando un processo che portò alla fine dell’integrazione, simboleggiata da una stanza scura, l’ultima dell’esposizione. Qui l’unico raggio di luce, che filtra da una finestra, compone un intervento del curatore, Thomas Bellinck, il quale si rivolge a un caro amico morto suicida in epoca di crisi.

Utile provocazione, quella dei teatranti fiamminghi, tanto più significativa perché ambientata in un vecchio collegio a due passi dalla sede della Commissione, nel cuore del “quartiere europeo” di Bruxelles. Bellinck dice di essersi ispirato ai musei che un po’ ovunque, in Europa Orientale, raccontano la vita quotidiana ai tempi del blocco sovietico. Nessuno, all’epoca, avrebbe mai immaginato l’implosione dell’Urss e dei suoi satelliti. Né si riteneva una possibile una guerra continentale, durante la Belle Epoque. Ecco perché bisogna tenere a mente quello che gli anglosassoni chiamano il worst case scenario.

Non sono tanto il bizantismo legislativo, esemplificato dalla celebre direttiva sulla corretta curvatura delle zucchine o sulla dimensione standard dei pomodori, e il potere delle lobby – che i teatranti stigmatizzano in una stanza colma di biglietti da visita e Blackberry – a mettere in pericolo il futuro dell’Unione. È la mancanza di coraggio, l’incapacità di far seguire la politica alla moneta, passando al di là degli interessi nazionali e soprattutto delle rispettive constituency elettorali, a determinare la sostanziale debolezza di quello che resta comunque un gigante economico.

A favore di un’integrazione più forte, fino a costituire un vero Stato federale, si sono levate molte voci, nell’Europa mediterranea: Enrico Letta, Emma Bonino, persino il presidente francese Hollande. I vari passaggi – unione bancaria, eurobond, banca centrale come prestatore di ultima istanza, esercito comune – non saranno agevoli, eppure necessari ad evitare che il continente si converta in una semplice area di libero scambio, o, peggio ancora, che tornino le barriere nazionali. In fondo, la migliore garanzia dell’Unione è quella che Bellick chiama “la paura della perdita”. Meglio ristrutturare una casa fatiscente che tornare a un’incerta capanna, in perenne balìa dei venti.

Twitter: @vannuccidavide

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter