L’esercito spara, gli islamisti bruciano le chiese

Egitto, l’incubo della guerra civile

IL CAIRO – Con il «Venerdì della rabbia» del 16 agosto, la città del Cairo è tornata ad essere militarizzata. I Fratelli musulmani hanno invocato otto giorni di marce contro lo sgombero di Rabaa e le manifestazioni sono state imponenti: 28 cortei pro-Morsi sono partiti dalle più grandi moschee della città, teatro degli scontri nei giorni scorsi (Mustafa Mahmoud, Fatah, Quds, Aziz Belah, Salam, Ein Shamps). Ma anche a Suez, Alessandria, Minia, Dakhleya e Beni Suef. Negli scontri tra pro-Morsi da una parte ed esercito, polizia e giovani Tamarrod (alcuni armati) dall’altra, si contano circa 75 morti solo al Cairo (vittime anche ad Alessandria, Damietta, Tanta, Ismailya e Fayoum).

La reazione dei Fratelli musulmani

Gli scontri più duri si sono svolti in piazza Ramsis: decine di persone sono state colpite da cecchini sistemati sui tetti delle case. Interi palazzi sono andati in fiamme. Anche gli elicotteri dell’esercito hanno sparato sui manifestanti raccolti a Ramsis, mentre i carri-armati bloccavano il passaggio di ponti e strade. Durante gli scontri, gli islamisti hanno preso d’assalto la stazione di polizia di Azabakeya uccidendo un poliziotto. Ma l’assalto più violento, forse, è avvenuto con l’attacco islamista alla stazione di polizia di Qardasa a Giza, il 15 agosto, in cui sono morti 12 poliziotti. «Che io sappia dopo l’uccisione di alcuni giovani parenti, i loro familiari, dei pro-Morsi, hanno attaccato la stazione di polizia, non si è trattata di un’azione deliberata», spiega il blogger e attivista Wael Abbas.

Dal 14 agosto in Egitto sono andate in fiamme 40 chiese, sei solo ad Assiut. È completamente bruciata la chiesa copta di Mar Girgis, le chiese dei villaggi di Abutic e al-Qufeya. Nell’occhio del ciclone per questi incendi sono entrate le associazioni universitarie gamaat al-islamyya. Secondo lo sheykh della moschea Abu Bakr El-Seddek, Hussein Abdel Aal, uno dei politici più interessanti del movimento, «È opera di criminali legati alla Sicurezza di Stato. Non è questo il nostro modo di operare. Dagli anni Novanta rifiutiamo la violenza». Sullo sgombero di Rabaa dice che si tratta di «un’inaccettabile opera di mostri: un crimine di guerra. In nessun altro paese sarebbe successo, non si possono uccidere così persone inermi». Secondo altre testimonianze, gli incendi sono responsabilità di criminali comuni o simpatizzanti degli islamisti per l’odio contro i cristiani che viene sistematicamente diffuso.

Il 16 agosto ci sono stati scontri anche intorno all’ambasciata americana a Garden City (10 morti). Mentre la presidenza egiziana criticava le dichiarazioni rilasciate da Obama, che ha stigmatizzato l’uso della violenza e sospeso le esercitazioni militari annuali con l’Egitto. Ha suscitato polemiche il sostegno alla Fratellanza espresso dai Taliban afghani mentre il re saudita Abdullah ha assicurato il suo sostegno alla repressione militare. Infine, lunghi scontri tra pro e anti Morsi si sono svolti sul ponte 15 maggio all’inizio del quartiere di Zamalek. Secondo la stampa locale, qui sono arrivati mezzi carichi di jihadisti che hanno distribuito armi ai sostenitori dei Fratelli musulmani.

Anche i Fratelli musulmani dispongono di armi, «ma non in quantità comparabile con le munizioni di cui dispone l’esercito. Il ministro dell’Interno ha ammesso di aver ritrovato 9 kalashnikov a Rabaa. E questo giustifica l’uccisione di 700 egiziani? L’esercito dovrebbe arrestare e disarmare i miliziani, non uccidere gente indifesa in una sparatoria frenetica», prosegue Abbas. Nella notte di venerdì piazza Ramsis è stata completamente sgomberata.

Il mattatoio della moschea Imam

Rabaa al Adaweya dopo il massacro è un inferno. Ahmed, un giovane islamista, appena uscito dal carcere, piange mentre mostra desolazione e distruzione. Lungo via Nasser la strada che ha visto le barricate costruite dai Fratelli, è irriconoscibile. Decine sono i blindati andati in fiamme, per strada ci sono voragini nere dove sono state incendiate vetture e auto della polizia. La moschea di Rabaa ha i segni vivi dell’incendio, l’ospedale da campo anche. Polizia, militari e uomini armati in borghese presidiano l’ingresso dove brulicavano nei giorni precedenti decine di migliaia di islamisti. La stazione di polizia a destra dell’accampamento è andata in fiamme. Più avanti le carreggiate sono state sventrate da intere camionette dei pompieri, finite nelle vetrine dei negozi.

E poi si arriva al mattatoio, chiamato Makram Aabeid, la moschea-obitorio Imam: un antro dell’inferno. Un intenso odore di cadaveri in putrefazione è coperto da ventilatori e dal continuo ricorso a spray degli stessi parenti delle vittime. Decine sono i corpi in fila, coperti da un telo bianco e sormontati da grandi blocchi di ghiaccio per evitarne la decomposizione. Un uomo, posto sul podio al posto dello sheykh, legge una lista infinita di morte e la causa della scomparsa. Una donna e sua figlia accarezzano il capo di un giovane cadavere e piangono disperatamente. Bare di plastica e di legno passano attraverso una calca continua per entrare e uscire dalle piccole porte della moschea.

Ibrahim, un medico volontario, spiega che «la maggior parte dei corpi riporta spari al capo, sono arrivati da Rabaa e Nahda al ritmo impressionante di dieci al minuto». Molti di questi uomini sono morti due volte: prima sono stati uccisi dai cecchini dei palazzi o dalle cariche della polizia; poi i loro cadaveri sono stati dati alle fiamme nell’incendio dell’ospedale da campo di Rabaa. La moschea Imam non ha trovato pace. La polizia l’ha circondata nella notte di giovedì, ha arrestato alcuni parenti delle vittime e ha posto i cadaveri all’esterno della moschea per procedere alla sepoltura.

Più che una guerra civile è forse questo (700 morti, dieci mila arresti sommari, cadaveri bruciati e migliaia di feriti) un «genocidio»? Non ancora, per ora è un modo per disumanizzare e demonizzare gli avversari. Il segretario di Libertà e giustizia, Mohammed el-Beltagi, prima dell’inizio dello sgombero di Rabaa aveva detto che stava per iniziare la «seconda rivoluzione» egiziana dopo il 25 gennaio. Per il numero di vittime aveva ragione, ma per le responsabilità politiche questa volta si torna al dilemma dello scontro tra esercito e Fratellanza che prevede che uno dei due abbia tutto o niente: e questo nulla a che fare con la democrazia.  

Twitter: @stradedellest

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