Era un mercoledì, il ventotto di agosto di quel lontano 1963 e raramente il giorno centrale della settimana fu così al centro anche della Storia, scritta con la esse maiuscola. Fu organizzata quel giorno a Washington, di fronte al Lincoln memorial, la marcia per il lavoro e la libertà, cui parteciparono duecentocinquantamila persone, compreso il presidente John Kennedy e i leader delle organizzazioni per i diritti umani. Tra loro, con il suo fare deciso e coinvolgente, il reverendo Martin Luther King che, presa la parola, pronunciò alla folla e al mondo il celeberrimo discorso I have a dream.
il racconto
LA PECORA NERA
Nacque un giorno, nel gregge, una pecora nera.
«Beh?!» Esclamò la pecora madre, ma non era uno di quei beeeh tipici del verso delle pecore, bensì un beh come per dire cosa avete da guardare?! E si coccolava il suo agnellino nero nero, che ogni scarafone è bello a mamma sua anche tra gli ovini.
«Beh…», borbottò qualche pecora anziana, poco propensa alle novità e ancor meno avvezza alle trasgressioni. E anche per lei non era un beeeh qualsiasi, ma nemmeno un beh interrogativo, bensì un beh di quelli che lasciano intendere che c’è qualcosa che non va.
«Beh!» Belarono in coro le altre pecore, ancorché talmente fuori ritmo che un direttore d’orchestra, se fosse passato di lì per caso, sarebbe scappato a gambe levate. Qui, oltretutto, non si riusciva a distinguere tra i beh esclamati solo per andar dietro a quel che aveva borbottato la vecchia, i beh interrogativi come per dire non ci ho capito nulla e i beeeh tipici di chi va dietro al gregge.
«Non è nero, è solo scuro». Provò a specificare qualcuna.
«Forse è perché è nato di notte, al buio, poveretto – bofonchiò un’altra – certamente al primo sole si rischiarirà.» Come se per le pecore l’abbronzatura funzionasse al contrario. Beh, mah, sarà…
«No, no, è proprio nero!» Ribadì la pecora anziana.
«Sì, sì, è proprio nero!» Concordò mamma pecora ed è strano come a volte, con la medesima frase, si può intendere due cose diametralmente opposte. Già, perché per lei l’agnellino oltre che nero era bello, profumato, con il musetto simpatico e il codino a batuffolo. Cosa chiedere di più?
Non passò molto tempo che le cose furono più chiare. Anzi, restarono scure, ma proprio perché erano scure, furono chiare per tutti. Chiaro?!
L’agnello nero, nero restò. Del resto nero lo era davvero e non c’era motivo per cui la natura dovesse sbiancarlo all’improvviso. Il gregge, però, rimaneva bianco e diventava molto difficile non notare la differenza.
Ci furono riunioni su riunioni, consulti su consulti e si finì per cacciare la pecora nera dal gregge e tanti saluti. A scanso di equivoci si cacciò anche la pecora madre, onde evitare che partorisse altri agnelli strani così. Giammai! E il caso fu chiuso.
Anzi no. Nel gregge, rimasto così bianco, che più bianco non si può, cominciò a serpeggiare una certa aria di sospetto. Fino ad allora tutti gli sguardi erano per quell’oscuro, impertinente diverso e non si pensava ad altro, ma ora quasi se ne sentiva la mancanza, al punto che le pecore cominciarono a cercare, una nell’altra, piccoli o grandi segni di diversità. O di distinzione.
«Lei ha la coda un po’ più lunga delle altre!» Cacciata.
«Tu hai il belato cavernicolo!» Cacciata.
«Quella ha l’alito che sa di camomilla!» Cacciata anche lei.
«L’altra ha le zampe a ics!» Via, via!
Il giochino diventò per alcune quasi divertente e ci fu pure qualche pecora che si sentì esclusa, a non avere un segno distintivo che la rendesse unica. Allora:
«Io ho il nasino all’insù!» Confessò un’agnellina timida e ingenua, che fu cacciata all’istante, senza nemmeno pensarci un minuto.
Fu mandata via la più alta e anche la più bassa, la più leggera e la più pesante, la più grassa e la più magra, quella con la lana più lunga e quella con le orecchie più corte.
Andò a finire che una pecora di media statura, con il tono né alto né basso, non pesante ma nemmeno leggera, né bella né brutta… una pecora qualsiasi, insomma, se ne rimase sola soletta, avendo cacciato le compagne una dopo l’altra. Era davvero una pecora come ce ne sono mille altre, ma essendo l’unica si sentiva importante. Infatti, quando qualcuno si avvicinò al recinto, non esitò a mettersi in bella mostra, sorridendo anche un po’.
Era il macellaio del paese, giunto per scegliere un capo per l’arrosto. Ma non era rimasto proprio niente da scegliere: acchiappò quell’unica pecora rimasta, se la caricò sulle spalle e non ti dico poi cosa fece, perché lo hai capito di sicuro.
Non so se l’arrosto venne bene, quella sera – io certo non mangio carne di pecora e d’agnello… – ma sono certo che tutte le altre pecorelle, diverse una dall’altra, ognuna chissà dove, sono ancora lì che belano tranquille. Beh, almeno lo spero.
la fotografia
Pensando ai pacifisti più pacifisti della storia non si può non parlare di Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma, che in sanscrito significa grande anima. La sua disobbedienza civile ha portato l’India all’indipendenza nel 1947.
Tra le sue imprese rivoluzionarie ci fu la marcia del sale, nel 1930, contro il monopolio imperiale britannico e la relativa tassa. L’idea fu semplicemente di percorrere a piedi i duecento chilometri che separavano la città di Ahmedabad dalle saline del golfo di Cambay, sull’oceano Indiano, per raccogliere un simbolico pugno di gemme di sale. Furono migliaia le persone ad accompagnarlo e seguirlo, per ventiquattro giorni di viaggio, senza mai reagire – se non continuando a camminare – alla dura repressione della polizia. La prossima volta che metterai del sale nell’acqua per la pasta, o nell’insalata, facci un pensiero.
il video
Alcune parole del discorso di Martin Luther King dicono che, anche se affronteremo delle difficoltà oggi e domani, ancora lui ha un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno Americano: che un giorno quella Nazione si sollevi e viva nel vero significato del suo credo, di una verità che è evidente, che tutti gli uomini sono creati uguali. Sogna che, nella terra di Georgia, i figli di quelli che erano schiavi ed i figli di quelli che erano padroni degli schiavi si possano sedere assieme fraternamente alla stessa tavola. Sogna che anche lo stato del Mississippi, ardente per il calore della giustizia e per il calore dell’oppressione, un giorno sia trasformato in un oasi di libertà e giustizia. Sogna che i suoi quattro figli piccoli un giorno possano vivere in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per la loro personalità…
la pagina web
Quel ventotto agosto di cinquant’anni fa, davanti alla folla di Washington, la bella voce di una ragazza si sentì cantare we shall overcome: un giorno noi trionferemo. Era Joan Baez, quella ragazza, che ne fece di strada, sia per il suo talento musicale, sia per l’impegno nei diritti civili. Ma di strada – e molta – ne fece tanta anche la canzone per conto suo, come ci racconta il giornalista Enrico Tata sul suo blog.
i nostri eroi
Tra gli attivisti che cercano di tenere pacificamente insieme le sorti del nostro pianeta, c’è oggi una simpatica signora, che si chiama Vandana Shiva e viene dall’India, come il Mahatma Gandhi. Il suo pallino è la biodiversità e la tutela delle tantissime specie vegetali, che ormai corrono sulla via dell’estinzione. Dopo duemila anni che ci si vuole convincere di essere tutti uguali, potrebbe essere una bella idea provare a pensare che invece il bello è essere tutti diversi. È pure più facile, davvero, visto che diversi già lo siamo. Noi umani, ma anche i gatti, le formiche, le mele, i cocomeri e i semi.
Già, i semi sono il pallino del pallino di Vandana: quei semi che un tempo si tramandavano di pianta in pianta, stagione dopo stagione, poi di padre in figlio, generazione dopo generazione, e la sera un piatto di riso non mancava per nessuno. Oggi i semi vengono brevettati, come se li avesse inventati qualcuno…
Il 1968 fu un anno a dir poco particolare e indimenticabile, nel bene e nel male. La lotta per il rispetto dei diritti umani era argomento quasi quotidiano, con alcune conquiste e terribili tragedie, come l’assassinio di Martin Luther King, il quattro di aprile, a Memphis, e di Robert Kennedy due mesi più tardi.
Ma in quell’anno si disputarono anche i Giochi Olimpici, tenuti in ottobre a Città del Messico. Alla gara dei duecento metri di velocità partecipò e vinse Tommie Smith, sprinter americano, e già che c’era stabilì il record del mondo, primo uomo a infrangere il muro dei venti secondi. Terzo il suo connazionale John Carlos e tra i due un australiano. Fin qui tutto secondo le previsioni, visto che Smith era a dir poco il favorito, ma al momento della premiazione, lui e Carlos salirono sul podio scalzi e durante l’inno tennero il pugno alzato in aria avvolto in un guanto nero e la testa china, a sostegno di un progetto per i diritti umani.
Non tutti approvarono quel gesto, ritenendo lo sport cosa da non mischiare con la politica, ma è certo che l’immagine dei loro pugni chiusi è ormai tra le icone della storia dello sport.
I Giochi Olimpici non sono mai un evento qualunque, ma quelli del 1936 furono davvero particolari. Basti pensare che si disputarono a Berlino, in una Germania dominata dal nazismo. E deve aver trascorso molte notti insonni, il Führer, al solo pensiero che l’eroe degli eroi, tra gli atleti partecipanti, non fosse alto, biondo, con gli occhi azzurri e la erre grattugiata. Il fatto che nemmeno lui avesse queste caratteristiche non lo turbava, ma quel campione sì.
Stiamo parlando di Jesse Owens, atleta tra i più forti della storia. Il tre di agosto vinse i cento metri, tié. Il giorno quattro trionfò nel salto in lungo, doppio tié. Il cinque – indovina? – vittoria nei duecento metri. Non soddisfatto, la settimana seguente portò alla vittoria anche la staffetta quattro per cento.
Lo stomaco di Adolf deve essersi contorto più è più volte e lui, per non correre il rischio di dover stringere la mano a un atleta così poco ariano, se ne andò dallo stadio ben prima della premiazione.
quattro domande a…
… Mami
Gentile Hattie McDaniel, lei che viene via col vento come il suo film, cos’ha da dire riguardo alle discriminazioni e disuguaglianze?
Lascerei che il film parli da solo. Lo fa egregiamente dal lontano 1939 e anche se per qualcuno può risultare un po’ lungo si finisce per capire qualcosa, sulla condizione dei neri e delle donne negli stati del Sud.
Non posso darle torto, del resto quel film ha parlato talmente tanto, che alla fine lei si è anche presa il suo bel premio Oscar, complimenti! Il primo assegnato a un’attrice di colore.
E ne vado fiera, altroché. È bello essere stata la prima, perché questo ha segnato un passo avanti, ma tutto sommato sarei stata felice della mia parte da Mami anche senza alcun premio finale.
Però lo ha vinto ed è diventata un’icona. Lei e il film.
Potrei far finta di non darci troppo peso e magari dire che francamente me ne infischio, ma poi il vecchio Clark Gable mi verrebbe a cercare, perché lui ci tiene un sacco a quella che è diventata una delle frasi più memorabili dell’intera storia del cinema. E poi, come la dice lui non la dice nessuno.
Allora non infischiamocene, anzi! Ma, a proposito di frasi indimenticabili, sarà vero che domani è un altro giorno?
Se si pensa che il domani, solamente ieri era oggi, è innegabile che qualche cambiamento c’è stato, non crede? E i cambiamenti, soprattutto se vanno nella direzione auspicata, sono ciò che fa girare il mondo, che è bello e rotondo proprio perché trottola ed è diverso ogni giorno dal giorno prima.
ti consiglio un libro
Fabrizio Silei & Maurizio Quarello – L’AUTOBUS DI ROSA – Orecchio Acerbo
Il primo dicembre del 1955 la signora Rosa Parks era seduta su un autobus, per tornare a casa nella città di Montgomery, in Alabama. Chi non è mai tornato a casa in autobus, almeno una volta nella vita? A Rosa, però, donna dalla pelle scura, fu ordinato di alzarsi per lasciare il posto a sedere a un signore di pelle chiara. Quell’autobus, tra una curva e l’altra, svoltò davvero anche per chi non era a bordo ed è ancora lì che viaggia. Ce lo narrano le parole e le immagini di questo raccontano.
Twitter: @andreavalente