Buon compleanno, Mr. Friedkin! Lui che ai genetliaci ha dedicato due dei suoi primi film (Festa di compleanno del ‘68 e Festa per il compleanno del caro amico Harold del ‘70), oggi che spegne 78 candeline si porta a casa un bel Leone d’Oro alla carriera. Riconoscimento giustissimo per un’autentica divinità del cinema americano. Basterebbe solo L’esorcista per entrare nella leggenda del cinema. Il fatto è che William Friedkin ha fatto ben di più, e perfino di meglio.
Nato povero in una famiglia ebraica sfuggita ai pogrom nella natìa Ucraina, comincia a lavorare prestissimo e a inizio Settanta già fa risuonare il suo nome. Sì perché in quell’inizio di decennio ci sono due giovani trentenni che con un paio di opere straordinarie e di successo planetario aprono la stagione della New Hollywood. Friedkin inanella in un biennio Il braccio violento della legge (1971) e L’esorcista (1973).
Quasi in parallelo Francis Ford Coppola firma i due atti del Padrino (1972 e ‘74). Incassi stratosferici, Oscar, elogi della critica: Friedkin e Coppola, non da soli ma con più risonanza di altri in quella fase (di lì a breve arriveranno Lo squalo di Spielberg e Taxi driver di Scorsese), hanno dato una sterzata potente e irreversibile al cinema a stelle e strisce. Entrambi nati negli anni ‘30 nella regione dei Grandi Laghi (Friedkin a Chicago, Coppola a Detroit), entrambi in famiglie dove l’emigrazione è una traccia ancora molto viva e presente (Coppola addirittura a Bernalda, in Lucania, ci è tornata per fare del palazzo di famiglia un albergo con bar Cinecittà annesso), entrambi dotati di uno stile forte, acceso, sentimentale: operistico.
Più estetico Coppola, più rabbioso Friedkin. Il Padrino da par suo è puro melodramma verista mascagniano applicato all’America del Novecento, Friedkin invece all’opera si è addirittura dedicato, aprendo in anni recenti una fase della carriera costellata di successi imprevedibili: tutto comincia grazie a Zubin Mehta che gli chiede la regia per un Wozzech di Alban Berg per il Maggio Musicale fiorentino. Ma ci sono poi state, tra gli altri, la verdiana Aida e soprattutto l’amatissimo Trittico di Giacomo Puccini (di nuovo l’Italia), dove Il Tabarro è nelle sue mani una sorta di noir simenoniano, Suor Angelica accende tutto il suo misticismo da ebreo infatuato alla follia della figura di Cristo, e infine Gianni Schicchi, il titolo certamente più celebre, è quasi un gioco woodyalleniano.
È vero, Friedkin viene di sicuro visto come il grande interprete del paesaggio metropolitano americano (Il braccio violento della legge e il grandioso Cruising dell’80 sono tra i ritratti più spietati di New York mai visti). Ma la sua grandezza sta anche nella stupefacente capacità di contaminare quell’immagine profondamente indigena con uno sguardo europeo e cinefilo: per esempio utilizzando genialmente il bunueliano Fernando Rey nel Braccio violento della legge, il bergmaniano Max von Sydow nell’Esorcista, il wendersiano operatore Robby Muller nello strepitoso Vivere e morire a Los Angeles (1985). Ma Friedkin va addirittura oltre: non solo assimila e rimodula qualche suggestione, ma addirittura ricrea un mondo già definito, lanciandosi in ben due remake di opere estremamente riuscite (il che da l’idea di quanto rischiosa e sofisticata sia l’operazione): nel 1977 rifà un film del grande Clouzot, Il salario della paura, con cui oggi la Mostra di Venezia lo omaggia presentandone la versione restaurata e che Friedkin considera il suo film più personale, e nel 1997 mette in scena per la televisione il mitico La parola ai giurati di Lumet.
Friedkin che da oltre quarant’anni fa questa professione con rabbia e talora rancore, sempre con la voglia di sperimentare e mettersi in gioco senza rendite di sorta (prova ne sia che non ha mai voluto firmare i seguiti dei propri film, poi toccati ad altri, e c’è da dire talora con risultati straordinari come Il braccio violento della legge 2 di John Frankenheimer), apre proprio sui propri errori la splendida autobiografia, Il buio e la luce, che proprio oggi la Bompiani fa uscire. Un giovane pittore nero gli regalò i propri disegni ma lui li buttò via: era Basquiat. Un cantante alle prime armi dallo strano falsetto gli mandò un demo finito subito nel cassonetto: era Prince. Un amico, Cus D’Amato, gli propose di fare una società sportiva ma rifiutò: aveva appena scoperto Tyson. Poteva essere uno dei produttori di Guerre stellari, ma niente; e il comproprietario di Boston Celtics: niente da fare, rifiutato. Ho sbagliato troppo, sembra dire Friedkin. Ma sbaglierebbe ancora se lo pensasse davvero: ha lavorato tantissimo regalandoci un cinema meraviglioso. Tanti auguri, Mr. Friedkin!
La giornata al Lido ci ha riservato anche il primo film italiano in concorso. Via Castellana Bandiera di Emma Dante. La regista debuttante al cinema è una celebrità del nostro teatro di ricerca: lo dimostra il codazzo che la accompagna in conferenza stampa, pieno di addetti al culto e vario funzionariato Rai (produce Rai Cinema). Come Pippo Delbono, la Dante ritiene che la bravura (o almeno la riuscita) in scena sia commutabile sul grande schermo, senza evidentemente aver abbastanza riflettuto sulla circostanza che talenti immensi come Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Massimo Castri non hanno mai tentato l’avventato passo, ritenendo giustamente che trattasi di mestieri diversi. La Dante causa invece se ne fotte (come Delbono, per quanto meno pretenziosamente).
Anzi, su questa storiella intorno al paradosso di due macchine che si bloccano in una strada della periferia palermitana senza che nessuna delle due voglia cedere il passo all’altra (e via di matriarcato, di omosessualità femminile, di straccionismo meridionale dove la gente si intrippa di birra e spaghetti), l’autrice da qualche tempo ha eretto una studiata economia di scala: il romanzo Via Castellana Bandiera, lo spettacolo Via Castellana Bandiera, il film Via Castellana Bandiera… Che ci attende in futuro, signora Dante: un radiodramma Via Castellana Bandiera? E perché no uno sceneggiato Via Castellana Bandiera? O magari una web serie Via Castellana Bandiera?
Concludiamo la giornata con Tracks di John Curran: il racconto, basato su una storia vera, dell’attraversamento del deserto australiano da parte della giovane Robyn Davidson, che poi sul viaggio ha scritto un bestseller. Una donna, un cane e quattro cammelli. Questa è la compagnia che taglia il continente degli antipodi da Alce Springs fino all’Oceano Indiano. Il classico film che in Italia non potremmo mai fare, per mancanza di spazio vuoto in cui perdersi. Abbiamo riempito le campagne di caseggiati più o meno abusivi, delle stalle abbiamo fatto villette, e di pari passo siamo diventati anti-caccia, anti-pesca, anti-tutto, ci battiamo per i diritti delle zanzare e la natura quasi non sappiamo più cosa sia. Vedessero Robyn che giustamente abbatte col fucile cammelli selvaggi e il cane avvelenato, certi ambientalisti come minimo farebbero guerriglia al film sotto la guida di Marina Ripa di Meana. E invece sono proprio film come questo i migliori partigiani della natura.