Un anno fa, di fronte allo stallo siriano, Casa Bianca e Cremlino cominciarono a parlare della Yemenskii Variant, la variante yemenita, prospettando per Damasco un accordo analogo a quello che a Sana’a aveva portato alla fine della più che trentennale presidenza Saleh, tramite un governo di unità nazionale e il passaggio dei poteri al vice, Abd Rabbo Mansur Hadi.
Assad è ancora in sella e la variante è rimasta circoscritta allo Yemen, dove il “dialogo nazionale” prosegue, con alterne fortune, e il presidente Hadi si è guadagnato l’appoggio della cosiddetta comunità internazionale, testimoniato dall’accoglienza ricevuta a Washington una settimana fa.
Malgrado la soluzione della crisi, attraverso un regime change morbido, Sana’a non ha cessato di rimanere un problema. Anzi, in questo momento lo Yemen è il problema per antonomasia di Cia, Pentagono e Dipartimento di Stato, il fronte principale di quella guerra al terrore avviata da George W. Bush e proseguita da Barack Obama. La chiusura precauzionale di diciannove sedi diplomatiche americane, in Medio Oriente e in Africa, ha origini yemenite, perché nasce dalla minaccia di un’organizzazione attiva nel Paese, Al Qaeda nella Penisola Araba (Aqap).
La sigla Aqap cominciò a farsi notare alla fine del 2009, quando un giovane nigeriano, Umar Farouk Abdulmutallab, tentò senza successo di farsi esplodere su un volo della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit. La missione portava la firma di Anwar al-Awlaki, chierico fondamentalista, yemenita, ma nato e cresciuto in New Mexico (e quindi munito di passaporto americano).
Nel 2010 Obama decise di avviare un programma di attacchi (strike) contro le strutture qaediste della penisola araba, attraverso i droni, aerei senza pilota, comandati a distanza. Awlaki finì sulla kill list presidenziale e venne ucciso il 30 settembre 2011. L’omicidio mirato scatenò polemiche in America, sulla liceità o meno di uccidere cittadini statunitensi in operazioni di antiterrorismo, e l’amministrazione si difese sostenendo che Awlaki rappresentava una minaccia “costante ed imminente” per il suolo americano.
Gli strike dei droni non si sono fermati – l’ultimo, il 7 agosto ha ucciso sette persone – la rete fondamentalista è stata colpita, ma è sempre rinata dalle proprie ceneri. Anzi, dai 2-300 membri di Aqap a fine 2009 si è passati a qualche migliaio di combattenti. Perché? Gregory Johnsen, dell’università di Princeton, fornisce una spiegazione esauriente: «Non tutti gli attacchi americani hanno avuto successo. Ci sono strike che hanno provocato la morte di civili, altri che hanno ucciso donne e bambini. I leader qaedisti hanno famiglie, clan, tribù. Gli Stati Uniti decidono di colpire un individuo perché appartiene ad al Qaeda. In realtà lui viene considerato, e difeso, come membro di una particolare tribù. Perciò ci sono persone che hanno aderito alla rete non per motivi ideologici, ma per vendicare un uomo della propria tribù che è caduto vittima di un drone».
Nella primavera 2012 Aqap ha sviluppato una bomba in grado di sfuggire ai body scanner di ultima generazione. Fortunatamente, all’epoca, l’ordigno venne consegnato ad un agente infiltrato (un saudita) e la minaccia venne sventata. Che l’organizzazione rappresenti oggi la principale preoccupazione dell’intelligence americana è dimostrato dal fatto che la decisione di chiudere le sedi diplomatiche è scaturita dall’intercettazione di alcune conversazioni tra alcuni membri di Aqap, a partire dal suo leader, Nasir al Wuhayshi, più conosciuto come Abu Basir. Il Daily Beast ha parlato anche di una sorta di conference call fondamentalista, guidata da Ayman al Zawahiri, il medico egiziano ritenuto l’erede di Osama bin Laden. Abu Basir gode di una notevole autonomia operativa, come tutti i capi delle varie branche regionali del network terrorista.
Quella di al Qaeda non è una struttura rigidamente verticistica. Al Zawahiri, come già Bin Laden, indica obiettivi e spinge all’azione – lo ha fatto recentemente invitando i gruppi egiziani a prendere le armi dopo la defenestrazione di Morsi – ma le modalità di questi interventi vengono definite da chi opera sul campo. Nel corso degli anni, si è sviluppato sempre più il modello in franchising, per cui al Qaeda è diventato una sorta di brand ideologico a cui si ispirano organizzazioni regionali, nate per raggiungere scopi circoscritti, anche dal punto di vista territoriale.
Lo Yemen, in questo senso, è un obiettivo appetibile. Con un’economia al collasso, dipendente dagli aiuti internazionali, minato dalla tendenze secessioniste del Sud e dalla ribellione degli sciiti houthi del Nord, è diventato terreno fertile per i campi di addestramento fondamentalisti. Hadi, in cambio del sostegno di Washington – un aiuto necessario a compensare le debolezze interne – ha dato luce verde agli strike dei droni.
Il governo yemenita ha rivelato proprio ieri di avere sventato un grandioso piano qaedista, che mirava a fare esplodere importanti pipeline, tra cui il gasdotto di Shebwa, e a prendere il possesso di alcune città, compresi due porti del Sud strategici per l’esportazione di petrolio, Mukala e Bawzeer. Tra 2011 e 2012 Aqap conquistò porzioni importanti del territorio yemenita, ma fu poi costretta ad arretrare, grazie all’intervento dell’esercito di Sana’a, con l’aiuto militare degli Stati Uniti e l’appoggio decisivo di alcuni notabili locali. Non è detto che l’allarme di ieri sia effettivamente così consistente.
È possibile che Hadi abbia semplicemente cercato di guadagnare consenso presso gli Usa, che dalla fine del 2011 hanno girato assegni per circa 350 milioni di dollari. Ma il pericolo resta concreto, si parla di un nuovo esplosivo liquido che, applicato sui vestiti e fatto asciugare, risulterebbe invisibile ai controlli. Gli americani, seguiti a ruota dagli inglesi, hanno deciso di evacuare tutto il personale dell’ambasciata di Sana’a. Non ci muove da questa certezza: nella Situation Room della Casa Bianca lo Yemen continuerà ad essere a lungo materia di dibattito.
Twitter: @vannuccidavide