In questi giorni il governo Letta sta predisponendo misure per ridurre il cosiddetto cuneo fiscale, ovvero le tasse che incidono sul lavoro. Sembra che l’orientamento deciso sia quello di focalizzare gli interventi verso i lavoratori e i settori più in difficoltà. È dunque necessario, come ricordato dal ministro Giovannini nei giorni scorsi, basare le scelte di politica economica su dati e analisi piuttosto che sulla sola discrezionalità politica, per evitare di “sparare un colpo a salve” a solo scopo politico-elettorale.
Proprio in quest’ottica il nuovo Programme for the International Assessment of Adult Competencies (PIAAC) dell’Ocse getta luce sulle competenze delle forze lavoro adulte dei suoi paesi membri in una nuova e innovativa ottica che alla consueta misurazione del grado di conoscenze tramite test, affianca uno studio d’avanguardia sulle competenze richieste ed utilizzate sul posto di lavoro. Questo è utile perché misurando sia il grado di conoscenze possedute sia quello effettivamente utilizzato è possibile focalizzarsi sull’eventuale cattiva allocazione del capitale umano nel mercato del lavoro, aspetto che ha un impatto notevole sul livello e sulla crescita della produttività del lavoro.
Le competenze sono misurate principalmente in due aree: alfabetizzazione e capacità numerica. I test, effettuati su campioni della popolazione adulta di età fra i 16 e i 65 anni, sono molto simili all’inchiesta PISA, già benchmark internazionale di riferimento per gli studenti delle scuole superiori. Infatti, come i PISA, misurano l’abilità di comprensione di testi complessi scritti e di uso e comunicazione della matematica.
Per quanto riguarda i risultati dei due test, la situazione italiana vis à vis gli altri paesi Ocse è abbastanza desolante: ultima per quanto riguarda la comprensione testuale (grafico 1), penultima davanti alla Spagna nelle competenze numeriche riportiamo nell’articolo i dati legati alle competenze di comprensione del testo, poiché le analisi hanno dimostrato essere più legate alla produttività).
Le differenze socio-demografiche segnalano una situazione migliore per i nostri giovani di età compresa fra i 16 e i 24 anni. Infatti, come si nota nel grafico 2 in Italia la differenza fra classi di età è più elevata della media, segno che l’aumento della scolarizzazione nel passato ha avuto un effetto positivo. Tuttavia, la strada è ancora lunga: i nostri giovani sono comunque in ultima posizione.
Per quanto riguarda invece la differenza di performance per livello di istruzione, il divario fra diplomati e laureati è ampiamente al di sotto della media Ocse, di certo non un grande complimento per il nostro sistema universitario; i nostri laureati risultano infatti i meno performanti assieme, ancora a una volta, agli spagnoli.
I risultati generali dei test sono di per sé già molto interessanti, ma la parte più intrigante dello studio è quella in cui, date le competenze testuali e matematiche, si analizzano quelle effettivamente utilizzate sul posto di lavoro.
Secondo le teorie economiche, lo stock di capitale umano si trasforma in produttività mediante differenti fattori, tra i quali investimenti, organizzazione e non ultimo il grado di flessibilità e dinamicità del mercato del lavoro che, ricordiamoci, ha come risultato ultimo quello di legare un’impresa a un lavoratore. Sarebbe perciò errato da una misura grezza di conoscenze desumere ipse facto livelli di produttività differenti fra paesi.
Lo studio Ocse misura con domande specifiche gli insiemi distinti di competenze che gli intervistati dichiarano necessarie per il proprio lavoro e permette di collegare direttamente un set specifico di skills legate alla lettura del testo al livello di produttività del lavoro. Come si può notare dal grafico 4, la correlazione fra le due variabili è positiva e significativa, e diventa più forte controllando per il livello di conoscenze del testo misurate dal test generale.
Questo risultato è molto importante perché permette di affermare che le competenze effettivamente utilizzate sul posto di lavoro sono il vero motore della produttività individuale. Il giusto accoppiamento fra le competenze del lavoratore e impresa è perciò il fattore che più influenza la produttività. Ne consegue che tutte le riforme che aumentano il grado di efficienza e di dinamismo del mercato del lavoro, a parità di capitale umano esistente, aumentano quindi anche la produttività.
In un paese come l’Italia in cui i flussi in ingresso, in uscita e i cambiamenti di posto di lavoro sono storicamente bassi e in cui il capitale umano è di per sé non eccellente,si rischia di incancrenirsi in una palude di produttività stagnante, che aggrava la situazione provocando una scarsa dinamica salariale. Questo non incentiva le giovani generazioni ad investire nell’istruzione: è storia recente – e giustamente fa scalpore – il basso numero di iscrizioni all’università, seppur in presenza di una recessione che di per sé causa un aumento del tasso di scolarizzazione.
L’impressione è ulteriormente rafforzata dalle misure di “mis-allocazione” del fattore lavoro. In Italiail numero di persone over-skilled e under-skilled – ovvero con un grado di conoscenze utilizzate non in linea con la domanda specifica delle imprese è elevato – rispettivamente pari all’11 e al 6% dei lavoratori. Come eliminare questo mismatch se non tramite una dinamica più accentuata dei flussi occupazionali? Non a caso, i paesi del Nord Europa, spesso citati per i loro mercati del lavoro flessibili, mostrano un grado di efficienza allocativa nettamente migliore.
Al netto dei problemi nel mercato del lavoro, è necessario affrontare un problema più generale di capitale umano che, come mostra il grafico 6, sembra essere annidato in competenze di base. L’uso medio delle competenze di lettura e scrittura in Italia è decisamente al di sotto della media; questo è abbastanza sorprendente se abbinato alla constatazione che invece le competenze ICT sono in linea con la media Ocse. Sono risultati contro-intuitivi, che ovviamente tirano in ballo anche le competenze domandate dalle imprese. I cambiamenti organizzativi e tecnologici hanno ovviamente un effetto sulla composizione della forza lavoro; un cambiamento più intenso si associa ad una forza lavoro più orientata verso lavori altamente qualificati, che forse con sorpresa richiedono più di altri un grado di conoscenza nell’interpretazione testuale più marcato. Tutto ciò necessita di un complemento di analisi, ma sicuramente sembra contraddire una serie di luoghi comuni e porta a pensare che sia necessario orientarsi verso politiche di rafforzamento delle conoscenze di base, a partire dalle nostre scuole.
L’intero sistema necessita un cambiamento; senza incentivi adeguati è impossibile sperare che una riforma isolata possa cambiare lo stato delle cose, è necessaria programmazione e una visione d’insieme sulle relazioni sottostanti a ogni outcome economico. Che lo stato delle cose sia generalmente insoddisfacente lo si desume anche dalloscarso collegamento esistente fra status sul mercato del lavoro e livello di conoscenza nel test di comprensione del testo. La probabilità di partecipare al mercato del lavoro è di poco influenzata dalle competenze possedute e lo stesso vale per il livello di salario. Cercare di analizzare in profondità le cause di questi fenomeni, per poi adottare le misure più efficaci di politica economica rimane forse il sogno di tutti coloro che non si abbandonano allo status quo e continuano a sognare un paese che si non si sottrae al futuro per paura di cambiare.
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Twitter: @thmanfredi