Sono vari gli Stati che hanno interessi nel teatro di guerra siriano: in primis la Russia, che esporterebbe il 6% delle sue armi a Damasco, sarebbe creditrice degli Assad, avrebbe siglato contratti per lo sfruttamento del gas trovato nel Paese e non vorrebbe rinunciare a un avamposto nel Mediterraneo – la sua base militare di Tartus.
Si è parlato anche dei legami con l’Iran: sciita come gli alawiti, gruppo di cui fa parte la famiglia di Assad, nemico di Israele, fornitore di armi e sponsor di un gasdotto che passerebbe per l’area siriana evitando la Turchia; cosa per la quale Ankara avverserebbe il regime così come l’Europa per la concorrenza col gasdotto Nabucco).
Non mancano interessi francesi, pronti all’interventismo per rispolverare il proprio ruolo di potenza e accaparrarsi il mercato siriano delle infrastrutture e degli idrocarburi.
Papa Francesco si è chiesto pubblicamente se esistano altre motivazioni oltre a quelle dello scontro nato all’interno del Paese. Durante l’Angelus dell’8 settembre: «Questa guerra di là, questa di là, perché dappertutto ci sono guerre è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale».
In questo quadro, come si colloca l’Italia nei confronti della Siria?
Profughi siriani (Afp)
I rapporti commerciali
Qualche anno fa erano buoni: «La Siria, prima della guerra civile, era un partner abbastanza importante per l’Italia, uno dei più importanti per il Medio Oriente», spiega Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano. Secondo i dati Istat elaborati dall’Ice (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane), le importazioni dalla Siria all’Italia dal 2004 al 2008 viaggiavano sul valore medio degli 800 milioni di euro; le esportazioni da Roma per lo stesso periodo erano passate da meno di 600 milioni a quasi un miliardo. Dopo un picco nel 2010 gli scambi sono poi calati a partire dal 2011, coi primi disordini, fino ai valori attuali. Tra gennaio e maggio di quest’anno abbiamo esportato per 33 milioni di euro e importato per 18.
Interscambio commerciale Italia-Siria secondo i dati Istat elaborati da Ice
I beni maggiormente venduti dall’Italia, per l’Istat, sono macchinari “per impieghi speciali” e “generali” (tra cui motori, turbine, pompe, compressori, macchinari industriali per raffinerie, industrie alimentari, cartiere, concerie, industrie chimiche) e prodotti chimici di base (tra cui fertilizzanti, gas industriali, altri composti chimici industriali). Tutti materiali importanti per l’industrializzazione del Paese, in cui più della metà dei macchinari è made in Italy. «Finmeccanica aveva diversi affari», continua Parsi; commentando il “no” italiano all’intervento militare nel Paese non crede però che Damasco sia tanto importante per noi «da determinare le nostre decisioni politiche». Concorda Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di Politica internazionale). Ricorda come Finmeccanica «aveva venduto sistemi di difesa ad Assad e aveva buoni rapporti col regime», ma puntualizza che, nonostante i buoni rapporti,
«Damasco rappresenta lo 0,2% dell’intero scambio commerciale italiano. Non è commercialmente rilevante come l’Egitto o la Tunisia, dove le nostre aziende delocalizzano, o come la Libia per il petrolio».
Dalla Siria si importavano pelletteria, fibre tessili e fossili (petrolio e derivati), ma le forniture di questi ultimi sono state interrotte all’inizio guerra civile per l’embargo economico Ue del 2 settembre 2011. Prima della guerra la produzione siriana ammontava a circa 400 mila barili al giorno, di cui 150 mila esportati. Non una grande produzione, se confrontata con il milione e 600 mila barili della Libia e i 10 milioni sauditi. Quasi la metà del petrolio di Damasco, più di 50 mila barili, prendeva la direzione dell’Italia. Considerando che il nostro consumo giornaliero è circa di un milione e mezzo al dì, però, secondo l’Ispi è stato facilmente sostituito con quello di altri Paesi. Come sottolineano le motivazioni dell’Unione europa all’embargo, l’Ue è commercialmente rilevante per Damasco ma non è vero il contrario. Per Eugenio Dacrema dell’Ispi:
«l’Italia era il secondo partner commerciale europeo però l’intero Pil siriano vale quanto il Friuli Venezia Giulia».
Si parla di quasi 80,9 miliardi di euro contro circa 1.400 miliardi del Pil Italiano nel 2011.
Il petrolio e il gas
Le teorie che vedono nel petrolio il vero motore degli schieramenti internazionali non convincono il ricercatore dell’Ispi Varvelli: «Ho letto che c’erano Iran e Siria interessate a mettere in attività una pipeline non ancora sulla carta, e che c’era l’interesse delle economie del Golfo a intervenire per impedire quest’unione. Il problema, però, è che ora la costruzione di una simile pipeline sarebbe un insuccesso economico, perché i prezzi del petrolio sono molto alti ma l’instabilità è grande e gli investimenti negli ultimi oleodotti e gasdotti ora fanno fatica a dare un ritorno».
Ipotetici interessi sullo sfruttamento del gas, poi, non potrebbero comunque giustificare una guerra. «I bacini off-shore scoperti tra Siria, Israele, Libano e Cipro sono troppo piccoli – secondo Dacrema –, il più grosso basterebbe al fabbisogno europeo per un paio d’anni».
Varvelli conclude: «Se vogliamo parlare dei giochi geopolitici, si dà il via alla speculazione: si è detto che la Francia è interessata a un’azione in favore delle economie del Golfo perché poi otterrebbe investimenti e facilitazioni da Qatar e Arabia Saudita. Questi due Paesi, dall’altra parte, hanno seguito linee diverse in questi anni: i sauditi hanno appoggiato i salafiti e i qatarini la fratellanza musulmana, per cui è molto difficile vedere una linea chiara».
Un ribelle con una munizione artigianale di mortaio
Le armi
Per quanto riguarda la vendita d’armi, sicuramente l’Italia è stata un buon fornitore d’armi per Damasco prima del conflitto. Dopo il mancato rinnovo dell’embargo a maggio, l’Unione Europea non ha vietato la vendita di armi in Siria, se non al regime di Assad, per cui di fatto ogni Paese ha avuto il via libera. Nessuno, compreso il nostro, ha ufficializzato la vendita di armi ai ribelli, sebbene ufficiosamente la Francia aiuti la resistenza in tal senso.
A proposito dei sospetti cui aveva dato voce Papa Francesco, Parsi esclude che la guerra in Siria sia alimentata da interessi dell’industria degli armamenti, «anche perché – commenta – sono interessi sui cui ci si mette d’accordo». Varvelli sottolinea come i Paesi fornitori «sono gli stessi da venti o trent’anni: Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e anche l’Italia. La Germania in misura minore». Ma, tornado alle ragioni della guerra, esclude che Obama sia più sottoposto di altri a queste pressioni, perché «le lobby delle armi non appoggiavano lui in campagna elettorale».
C’è anche chi sostiene, come la onlus Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere), che il nostro Paese abbia esportato armi in grande quantità nel 2011 verso gli Stati confinanti con Damasco che poi potrebbero averle rivendute (quello che viene definito traffico “grigio”). «È un dato curioso» per Dacrema dell’Ispi, secondo cui, però, «è possibile che ci fosse una maggior richiesta di armi in Paesi come Iraq e Turchia per via delle primavere arabe». Molte armi, poi, sono giunte ai ribelli dal Libano e Giordania che non hanno acquistato di più dall’Italia nel periodo 2010-2011.
L’intervento, le conseguenze e i rapporti diplomatici
In caso di un’espansione della guerra nella regione siriana, gli effetti non sarebbero diretti. Economicamente, «ora come ora non vedo ricadute – dice Parsi –. Invece se ci fosse un allargamento del conflitto, un intervento americano, questo porterebbe avere delle ricadute sul comparto energetico».
Non per la mancanza del greggio che arriva direttamente dalla Siria, ma per via dell’instabilità. «Piuttosto – aggiunge Varvelli – per le carenze che derivano dalla questione libica, perché ad agosto, per l’anarchia del Paese, si sono bloccati i pozzi. È stata questa la causa dell’attuale innalzamento dei prezzi».
Altra cosa sono le conseguenze umanitarie, ovviamente. Gli sbarchi sulle nostre coste, che spesso hanno esiti tragici, proseguirebbero: l’agenzia dell’Onu per i rifugiati stima che, quest’anno, tra i 21 mila profughi arrivati sulle coste del Meridione più di 4.600 erano siriani, 3.300 negli ultimi 40 giorni.
Poi, se si verificasse un attacco Usa mal congegnato, il conflitto potrebbe allargarsi. Al Libano, ad esempio, dove i militari italiani presenti potrebbero subire attentati. Lo evidenzia il professor Alessandro Colombo, ordinario di Relazioni Internazionali alla Statale di Milano, che come Parsi cita anche rischi terroristici per l’Europa.
Il “no” all’uso delle basi nel nostro Paese nel caso di intervento degli Usa, comunque, non c’entrerebbe col timore di farsi nemici i russi o l’Iran. La ragione fondamentale per cui possiamo non concederle – per Colombo – è che gli Usa non ne hanno bisogno. «Colpirebbero dalle loro navi quindi il “dire di no” è solo un bel gesto davanti all’elettorato». Parsi concorda: «Se pure volessero usare i droni di Sigonella, li sposterebbero fuori dal nostro territorio perché hanno un’autonomia limitata». Su questa scelta non ci dovrebbe essere un dietro-front del nostro governo, dunque, e anche l’invio di poche navi italiane, come l’Andrea Doria, in quella zona di Mediterraneo sarebbe «solo per rimpatriare italiani in caso di chiusura dello spazio aereo libanese». Si parla di meno di duemila persone tra cooperanti, accademici, uomini d’affari e persone col doppio passaporto.
I rapporti Roma-Damasco, fino a prima della guerra si sono mantenuti buoni. «L’Italia ha sempre cercato di fare da ponte verso coloro che gli alleati americani avevano difficoltà a digerire, come la Libia di Gheddafi o la Siria di Assad, o anche la Russia» spiega Varvelli dell’ISPI. Tanto più se sono Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e potenziali partner commerciali. Si ricordi a tal proposito il recenti trattato bilaterale per investimenti tra Italia e Siria firmato il 20 febbraio 2002 da Assad e dall’allora premier italiano Berlusconi (entrato in vigore il 13 novembre 2003).
Twitter: @Eva_Alberti