Prepararsi al mondo post-quantitative easing. Questa è la ragione che ha spinto Raghuram Rajan, governatore della Reserve Bank of India (Rbi) ad alzare il tasso d’interesse di riferimento di un quarto di punto, portandolo al 7,50 per cento. È uno dei primi effetti della politica monetaria espansiva, il QE appunto, della Federal Reserve. Consapevole degli squilibri presenti nell’economia indiana, e della sua interconnessione con gli Stati Uniti, Rajan ha iniziato ad alzare i tassi. «Dobbiamo essere pronti per quando la Fed agirà», ha detto. Del resto, la preoccupazione maggiore degli investitori finanziari è che i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) non siano in una posizione abbastanza forte da sopportare l’exit strategy della Fed.
Rajan ha voluto dare un segnale forte. L’ex docente della Chicago Booth, nonché uno dei primi economisti a predire la crisi del mercato immobiliare statunitense, non ha voluto attendere. Ha deciso di alzare il tasso di riferimento e, allo stesso tempo, di abbassare il tasso d’interesse per le operazioni di rifinanziamento delle banche, dal 10,25% al 9,50 per cento. «I costi di funding per gli istituti di credito indiani sono troppo alti e il tapering della Fed potrebbe essere dannoso per tutto il sistema bancario», ha detto Rajan. Non sono state escluse azioni nell’immediato futuro. «Tutto dipenderà da quando la Fed inizierà a ritirare la liquidità, per ora siamo a un livello adeguato», ha ribadito il banchiere centrale. Tuttavia, il suo obiettivo è quello di portare la differenza fra i due tassi a circa 100 punti base, in modo da migliorare l’accesso delle banche ai finanziamenti. Un compito non facile, ma necessario.
Gli squilibri finanziari dell’India sono elevati. Lo hanno ricordato negli ultimi mesi sia l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sia il Fondo monetario internazionale (Fmi). Tre i problemi principali: troppa liquidità, costi di rifinanziamento nel breve termine troppo elevati, tasso d’inflazione in crescita negli ultimi mesi. Problemi che esistono da tempo, ma che non erano ancora stati affrontati, come ricordato dalle autorità. A fine agosto il vice governatore della Rbi, Anand Sinha, ha ammesso che prima dell’arrivo di Rajan vi erano «immense lacune di vigilanza macroprudenziale». Traduzione: è come se fossimo seduti su una bomba pronta a esplodere. Per tal motivo sono arrivati gli aggiustamenti di oggi. Se poi a questo quadro si aggiunge un lieve rallentamento della crescita, lo scenario si scopre sempre più incerto. Secondo le ultime stime del Fmi l’India crescerà del 5,6% nell’anno in corso e del 6,3% nel 2014, ovvero meno 0,2% e meno 0,1% rispetto alle stime di inizio anno. «Bisogna evitare e contrastare questa frenata – ha detto Rajan – Per farlo serve rendere sostenibile nel lungo periodo la crescita, eliminando gli squilibri e la dipendenza dall’estero». Non sarà un compito facile.
La mossa a sorpresa di Rajan ha funzionato. La rupia, la valuta indiana, ha subito guadagnato terreno contro il dollaro, dopo che nelle ultime settimane era stata oggetto di perdite significative. Allo stesso tempo, diversi operatori finanziari hanno commentato in modo positivo la strategia di Rajan. Secondo Standard Chartered «la Rbi ha agito in modo inconsueto, ma sicuramente tempestivo: è un ottimo segnale per testimoniare il monitoraggio costante delle politiche della Fed». Analisi simile anche per HSBC, che nelle settimane scorse aveva messo in guardia tutti i Brics dal tapering del QE da parte della banca centrale statunitense. «La vulnerabilità degli Emergenti alle decisioni della Fed è troppo elevata, si rischiano shock profondi e prolungati», aveva scritto Stephen King, capo economista di HSBC. Per questo, Rajan ha agito. E forse è anche per dare un po’ più di tempo ai Brics che Ben Bernanke e la Fed hanno deciso di non avviare ora il ritiro della liquidità.
Ora che l’India ha fatto il primo passo, è lecito attendersi che altri Paesi facciano lo stesso. Potrebbe farlo il Brasile, che ha già alzato quattro volte il tasso d’interesse da aprile a oggi, portandolo al 9 per cento. Il capo della banca centrale brasiliana, Alexandre Tombini, durante l’ultimo meeting non ha escluso altri interventi. «Abbiamo un problema con il real (la valuta brasiliana, ndr), ma soprattutto con la Federal Reserve, che urterà sicuramente l’economia globale quando finirà il QE», ha detto Tombini. Parole molto simili a quelle ascoltate durante il G20 di San Pietroburgo, dove i Brics hanno trovato l’accordo per creare un fondo strategico da 100 miliardi di dollari, utilizzato grazie alle riserve valutarie dei singoli Paesi, in modo da controbilanciare gli effetti della fine del QE. Le schermaglie fra Brics e Stati Uniti sono già iniziate. E stanno continuando. Il prossimo passo toccherà alla Fed?