«C’è sgomento. E viva preoccupazione». Così commenta a caldo a Linkiesta un alto funzionario della Commissione europea. Le dimissioni dei ministri del PDL aprono forse il capitolo più difficile della recente storia italiana. Situazione analoga per alcuni degli investitori incontrati da Enrico Letta nel suo roadshow negli Stati Uniti. Pazienza finita per tutti, fiducia in rapido calo e due parole, pronunciate al telefono dal funzionario Ue, che lasciano l’amaro in bocca: «Siete ingovernabili».
La mossa di Silvio Berlusconi è stata un fulmine a ciel sereno. Specie a Bruxelles, la notizia è arrivata con una forza dirompente. «Sapevamo che la situazione era seria. Ora è d’emergenza», avverte un funzionario dialogando con Linkiesta. Il clima non ricorda nemmeno quello del novembre 2011, quando l’Italia era vicina a perdere l’accesso ai mercati obbligazionari. Questa volta potrebbe persino essere peggio. Perché il tempo al Paese è stato dato. Perché la fiducia era tornata. Perché c’era la speranza che con Enrico Letta ci fosse una svolta. Invece no. La rabbia e la frustrazione di Olli Rehn, commissario Ue agli Affari economici e monetari, durante l’incontro della scorsa settimana con il ministro delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, resterà negli annali. Era il preludio a ciò che si sta vivendo oggi, cioè lo show-down del governo Letta.
La Commissione europea guarda con estrema attenzione all’Italia. Il triste balletto fra IMU e IVA rappresentano il peggior biglietto da visita che potesse dare questo governo, frutto di una larga intesa forzata fra PDL e PD che sulla carta non avrebbe mai funzionato. Detto, fatto. Eppure, la fiducia c’era. Si è dato tempo. Si è chiusa una procedura d’infrazione per deficit eccessivo aperta nel 2009. «È stato un segnale, un premio per i vostri sforzi. Questo è il risultato», continua il funzionario comunitario, evitando del tutto di mascherare l’impotenza di fronte a tutto ciò che sta succedendo in Italia. Per ora non c’è ancora una linea da seguire. C’è preoccupazione. E una doverosa attesa per ciò che saranno i prossimi giorni. Tuttavia, è chiaro un concetto: la pazienza stavolta è agli sgoccioli.
C’è poi il Fondo monetario internazionale (Fmi). I due rapporti sullo stato del Paese pubblicati ieri, l’Article IV Consultation e il Financial sector stability assessment, hanno evidenziato che una crisi politica può portare a uno stallo nella normale attività governativa in grado di avere due effetti. Da un lato, rallentare l’aggancio della ripresa che sta arrivando. Dall’altro, fermare il processo di riforme strutturali che servono al Paese per uscire dall’emergenza. Non solo. Come ricordato dal Fmi, uno stallo politico, o una crisi di governo, minerebbero sia la sostenibilità del debito pubblico sia l’attuale rating sovrano dell’Italia. Le voci di un imminente downgrade, che si rincorrono da inizio settimana, potrebbero quindi diventare realtà entro pochi giorni.
Lo scenario è a tinte fosche. Sull’Italia aleggiano gli spettri del downgrade, che costringerebbe gli investitori internazionali a un riallocamento dei portafogli, e quello della richiesta di un aiuto esterno. Sul primo versante, sia Standard & Poor’s sia Fitch sono le indiziate per il taglio che potrebbe giungere la prossima settimana. Se così fosse, l’Italia rischierebbe di arrivare allo status “junk”, obbligando i gestori a vendite copiose dei titoli del nostro Paese in modo da rispettare i rating minimi per i singoli portafogli.
C’è poi un’altra questione spinosa. Fra le righe del Financial sector stability assessment, il Fmi ha messo in guardia l’Italia su un punto particolare. «Servono misure specifiche per il sistema finanziario», hanno scritto i funzionari del Fondo. In altre parole, occorre adottare misure per limitare il peso dei Non-performing loans (crediti dubbi, o Npl) nei bilanci delle banche italiane, che attualmente sono vicini ai 260 miliardi di euro. Che sia la creazione di una serie di bad bank, tramite l’intervento dello European stability mechanism (Esm), o che si portino avanti dei bail-in focalizzati, poco cambi. L’importante è che si faccia qualcosa. Non solo. Occorrono misure capaci di riattivare i canali del credito. E da Francoforte, sede della Bce, guardano con sempre maggiore attenzione al sistema bancario italiano. Colpa dei ritardi nei rimborsi del fondi ottenuti dagli istituti di credito italiani tramite le due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-term refinancing operation, o Ltro) condotte dalla Bce fra novembre 2011 e febbraio 2012. Su 260 miliardi di euro ricevuti, i rimborsi non arrivano al 10 per cento. È questo il sintomo di un malessere sistemico che potrebbe esplodere alla luce della crisi di governo.
Un eventuale deprezzamento dei titoli di Stato italiani andrebbe a colpire le banche italiane in modo significativo. Più che del differenziale di rendimento fra i Btp decennali e i corrispettivi tedeschi di pari maturity, ovvero lo spread, importano altre due cose, fanno notare dal Tesoro. La domanda di bond italiani, che deve restare sopra quota 1,50 da qui a fine dell’anno, e una volatilità dello spread limitata a pochi punti base, in caso di crisi politica. Tradotto, l’obiettivo deve essere quello di tenere lo spread Btp-Bund sotto quota 320 punti base da qui a fine anno e, in ogni caso, cercare di non tornare con un rendimento vicino al 5% per quanto riguarda i Btp decennali. Oltre, si entrerebbe nel territorio dell’ignoto.