Ma i romani come l’hanno presa? Cambieranno davvero le loro abitudini in nome di uno sponsor? Termini Vodafone entrerà nelle frasi e negli appuntamenti di tutti i giorni? Il dubbio è lecito. «Se beccamo a Termini Vodafone» o «Devi scenne a Termini Vodafone» suonano perlomeno troppo lunghe, e come insegna Gigi Proietti il dialetto è basato sulla praticità: e se Mandrake diventa “Mandrache” – «perchè, insomma, che stamo a perde tempo?» – figurarsi che fine potrà fare Termini Vodafone.
Tra i commenti online alla notizia serpeggiano ironia e sbigottimento. Il lettore “Costadefi”, qui su Linkiesta, si preoccupa delle degenerazioni del branding. Si comincia col telefonino, si proseguirà con bevande varie, e il capolinea inevitabilmente sarà marchiato Durex. Come in una serata brava, se ci pensate (d’altronde, quando il discorso si allarga alla storia urbanistica di Roma, di solito va anche peggio: vedi il ricorrente paragone con lo stupro). “Zaccaro80”, sul Corriere, suggerisce, anzi supplica: «Vi prego: fate subito TIMburtina!». Ecco, questa quasi quasi potrebbe funzionare. Tiburtina, da capofila dell’alta velocità, si avvia a essere la prima stazione di Roma. Ma è difficile, molto difficile, che attiri la stessa dose di sentimenti contrastanti che da sempre accompagnano la stazione Termini, emblema architettonico del Novecento e cuore della romanità.
Perché Termini è la porta di Roma, la prima stazione d’Italia e uno degli esempi di cosa rende capitale una città. Accoglie 480mila frequentatori al giorno, e la somma dei visitatori ogni anno raggiunge i 150 milioni di persone. Da una mattina all’altra fa da approdo a 850 treni. Si estende su una superficie di 225mila metri quadri, e Dio solo sa cosa ci puoi trovare dentro, ben oltre i negozi e i punti ristoro. Da noi, nessun’altra città ha uno scalo come Termini. Neanche Milano, dove la Centrale, tutta monumento e niente praticità, è un ricordo dell’Italietta che fu, magniloquente e tronfia, con una struttura esterna che sembra una scenografia da film muto e degli interni inutilmente labirintici.
Il film “Stazione Termini”
I numeri stabiliscono la primazia di Termini, ma contano fino a un certo punto. Ciò che rende unica Termini sono le contraddizioni che le si addensano addosso. È una struttura disegnata in un modo ancora oggi moderno, e allo stesso tempo è un ricettacolo di problemi e degrado. A livello architettonico, un biglietto da visita molto lodato all’estero (un po’ meno in patria). A livello umano, una specie di zoo con esemplari di qualsiasi specie. Tanto da meritarsi un progetto fotografico sui soggetti più strani o pittoreschi (Stazione Termini di Niccolò Berretta, visibile su Tumblr). Chissa se Pio IX aveva previsto tutto ciò, quando la inaugurò nel 1867 (abitanti di Roma: 180mila!). Allora, all’Esquilino, non c’erano che campi, vigneti, ville cardinalizie e resti antichi, comprese le Terme di Diocleziano (da cui il nome della stazione).
Il ministro pontificio che l’aveva voluta, monsignor De Merode, contava di farci soldi: aveva acquistato dei terreni in zona. Da speculatore, aveva visto giusto. Ci vollero pochi anni per veder svilupparsi il traffico ferroviario. La stazione fu da subito, come spiega Luca Montuori sulla rivista d’architettura online Hortus, “per metà fabbrica e per metà palazzo”, presto sviluppata in “un pezzo di città, fatta di strade, percorsi, collegamenti, luoghi, piccoli monumenti, fontane, parti da visitare, parti da attraversare distrattamente”, come non sempre è accaduto in Europa. La stazione come un subcontinente dentro la città. D’altronde a Roma le linee della metro s’incrociano soltanto a Termini. È lì il cuore del trasporto pubblico. In quella “X” tra la linea A e B. Una forma che richiama il martirio, e non a caso: i romani ormai ci hanno messo una croce sopra, all’efficienza di bus e metro.
Il cinegiornale della costruzione
Il cinegiornale della inaugurazione
Ma se il carattere del subcontinente Termini è stato definito fin quasi dalla fondazione, l’aspetto ha subito cambiamenti decisivi. D’altronde la stazione ha attirato progetti di ogni tipo, sempre tentando di salvare assieme antico e moderno. Anche in ciò simboleggia bene Roma. La struttura di oggi è in gran parte figlia del progetto di Angiolo Mazzoni, architetto principe del regime fascista. Nel 1925 che Mazzoni comincia a disegnare un edificio razionalista, tutto travertino, archi e funzionalità, con richiami al futurismo e all’antichità romana. Ci lavorò fino al 1938. Con la guerra, i lavori s’interruppero. Con il regime democratico, cambiarono impostazione. La facciata progettata da Mazzoni, con tipico colonnato antichista-fascista, non fu mai realizzata. E fu costruito il nuovo ingresso, quello con il soffitto a onda, ribattezzato “il Dinosauro”, a firma dei gruppi Montuori e Vitellozzi.
È datato 1950, ma sembra fatto ieri. Se vi siete mai chiesti il motivo di tanta originalità, dovete guardare verso le Mura Serviane, unico rudere integrato nell’area della stazione: il Dinosauro serve a incorniciarle. Difficile capirlo subito: davanti, a coprirle, adesso c’è lo store della Nike. Ma all’epoca, la volta ondulata suscitava addirittura poesia (citiamo ancora dall’articolo di Montuori): “See, from the travertine/Face of the office block, the roof of the booking-hall. Sails out into the air beside the ruined/Servian Wall,” cantava Richard Wilbur, futuro poeta laureato d’America, in “For the New Railway Station in Rome”.
Un paio d’anni dopo, il grande produttore cinematografico David Selzick (quello di Via col vento, per intenderci) affida la moglie attrice Jennifer Jones alle cure di Vittorio De Sica, per un film da girare in Italia. L’ambientazione voluta dal soggettista Zavattini è proprio la stazione. Girato tra binari e biglietterie, Stazione Termini narra una storia d’amore tra la Jones e Montgomery Clift. Nella troupe spicca un velocissimo Truman Capote, sempre di corsa da una sala all’altra per riscrivere le battute degli attori in inglese. Come potessero trovarsi d’accordo il più grandioso produttore di Hollywood e un regista neorealista rimane un mistero, e infatti Stazione Termini sarà un’opera sfortunata. E a dirla tutta, prendere il nome della stazione non sembra portare bene: lo ha fatto anche un gruppo musicale negli anni Ottanta, con meritato insuccesso (è andata molto meglio ai Napoli Centrale).
Ma allora, per coincidenza, lo scalo sembrava avviato alla decadenza, e si moltiplicavano le storie di tossici e sbandati sempre in giro tra le arcate e la piazza. Dopo il Giubileo del 2000 la situazione è cambiata. Barboni e tossici si sono spostati in gran parte alla Stazione Ostiense. Resta, nelle zone intorno a Termini, molta prostituzione minorile e maschile. Ai pasti caldi per i senzatetto provvede la Caritas. Può capitare d’incontrare varie associazioni di volontariato, sempre in lotta con il disagio. C’è addirittura chi, come la comunità cristiana “Nuovi orizzonti”, offre non solo centri d’ascolto ma abbracci gratis e fino a poco fa, spettacoli notturni.
L’unico disagio senza rimedio sembra essere rimasto quello dei pendolari. Arrivano a Termini la mattina, dal Sud, con la promessa dello studio o del lavoro. Promessa che il sonno e il caos romano fanno presto a ridimensionare. La stazione è più grande di molti dei paesi da cui provengono. Se solo avessero il tempo, scoprirebbero che al secondo piano dell’Ala Mazzoniana, per anni in abbandono, c’è un cortile con al centro una fontana. Lì non arrivano rumori, pare fuori dal mondo. Nei primi anni del Duemila ci organizzarono mostre d’arte contemporanea. Ora più niente, e nel bellissimo piano terra dell’Ala, accanto ai binari, c’è un ristorante dall’aria esclusiva. Ma se diamo retta al sito internet di Termini, tutta la stazione sarebbe un luogo esclusivo. E magari social, nonostante il profilo twitter di Termini abbia, al momento, meno follower dello sconosciuto che scrive queste righe. C’è tempo per crescere, certo, ma per recuperare terreno dal punto di vista culturale sarebbe meglio affrettarsi: a volte le occasioni si perdono, proprio come i treni.
Twitter @frank_riccardi