I democristiani e l’anagrafe, la potenza del marchio che non muore mai e le stagioni della vita che passano per tutti. Anche se ti chiami Silvio Berlusconi. In queste due parentesi è compreso il senso di una giornata politica che chiude probabilmente, dopo una lenta agonia, il ventennio della seconda repubblica.
«Vincono Letta e Napolitano, perde Berlusconi, Alfano non è più un cameriere…», riassume efficacemente il messaggino di un amico. «Il Cavaliere tornando a Canossa accetta la decadenza da senatore dopo averla combattuta fino a stamattina…».
E’ andata così e non c’è alcuna ironia sulla clamorosa retromarcia del Cavaliere che possa scalfire questo fatto. In fondo Berlusconi ha sempre fatto inversioni; muoversi e calibrare ogni scelta sulla spregiudicata convenienza del momento è la sua cifra autentica (anche se mai così plateale e a stretto giro).
Quel che è successo oggi è però un’altra cosa, un fatto epocale per la piccola e misera politica italiana: il parricidio politico compiuto da un drappello di ministri Pdl guidato da Angelino Alfano. Un affrancamento da Berlusconi che nessuno immaginava avesse la forza di fare, per come il segretario Pdl è sempre stato vissuto: una specie di maggiordomo del Capo. Da oggi Alfano non è più il cameriere di Berlusconi. Si può ironizzare sul tempismo (ma allora avevano ragione Casini e Follini e Tabacci e poi Fini e Bocchino?), si può ironizzare sulla squadra di parlamentari che si è portato dietro, ma resta questo il dato saliente (fino a prova contraria). L’abbattimento di un totem. Berlusconi non più il padrone incontrastato del Pdl, il fondatore onnipotente. Ricordate? Alla sua prima legislatura litigò con Bossi, alla seconda con Casini, alla terza con Fini, alla quarta con Tremonti. Vincendo sempre a mani basse. Pensava che anche con Alfano e i giovani ministri sarebbe andata così: un fuoco di paglia, gente gregaria senza nerbo, polli in batteria, invece…
Invece la scissione di oggi potrebbe non essere affatto improvvisata. Non prende forma domenica scorsa ma è frutto di un lungo travaglio emotivo prima ancora che politico, coltivato nella solidarietà post democristiana che solo una comune radice e una vecchia militanza insieme ad Enrico Letta hanno reso possibile. E’ una prova di autonomia consumatasi nel precipitare traumatico degli ultimi eventi, piena di rimorsi e rimozioni, carezze verso il leader detronizzato e falsi pudori, ancora fragile e da costruire (ad esempio sulla vicenda dei gruppi autonomi), ma si è prodotta. Mario Monti, facendo una mezza gaffes, l’ha paradossalmente esplicitata stamattina in Senato. Staccare pezzi moderati a destra e sinistra, Alfano & Letta, tagliando fuori post comunisti e Berlusconi, i protagonisti rissosi e inconcludenti della seconda repubblica, convergendo su un programma di governo per la salvezza del paese.
Non sappiamo se il disegno riuscirà e se sia quello che serve davvero al paese. Non sappiamo se saranno all’altezza del compito o avranno i voti per coltivare questa ambizione. Anzi finora siamo davanti ad un governo tra gemelli diversi che riprenderà la sua marcia con gli stessi (o quasi) difetti di prima. Non si capisce ad esempio che riforme farà davvero Letta, se le farà, cosa farà sulle tasse, sul cuneo fiscale, sulle privatizzazioni, sulla spesa pubblica, sulla legge elettorale. Ma non è questa la novità di giornata, almeno per chi, come noi, non ha mai avuto il mito delle larghe intese.
Oggi vale soprattutto il simbolismo, l’embrione di una classe dirigente che rivendica autonomia dal padre-padrone, non più disposta ad immolarsi a scatola chiusa. Forse sta nascendo un centrodestra europeo, oltre l’anomalia berlusconiana. «Basta, non siamo più figli di Crono», dice uno dei frondisti. Una roba impensabile fino a pochi giorni fa. Tutto il resto sinceramente è folclore, commedia umana, 8 settembre in salsa minore, alleati che improvvisamente se le danno di santa ragione (Cicchitto contro Sallusti è il must) su cui ognuno, legittimamente, si è fatto la proprio idea.
Andiamo ancora indietro un passo. Silvio Berlusconi in realtà comincia a morire politicamente l’11 novembre 2011 quando è costretto a dimettersi travolto dallo spread e dagli scandali. La primavera successiva, ingabbiato nelle larghe intese di Mario Monti, perde l’alleato più fedele, Umberto Bossi, defenestrato dagli scandali padani, e con lui si sfalda l’asse del nord. Passa nemmeno un anno e il pareggione elettorale di febbraio 2013, pur celebrato come una mezza vittoria, epilogo dell’ennesima rimonta berlusconiana, in realtà rivela la grande diserzione dei moderati e di quel ceto medio produttivo deluso dal forzaleghismo dopo le promesse al vento di meno tasse e burocrazia per tutti. Il Pdl perde in un botto milioni di voti nonostante la campagna a tappeto di Silvio e se resta a galla è solo per le divisioni e l’insipienza del centrosinistra. Berlusconi in testa è una figura in declino, un leader usurato, scombinato, le sue aziende vanno male, arrivano al pettine le condanne nei processi. Le stagioni passano per tutti.
Nel frattempo le larghe intese cementano rapporti, riscoprono vecchie e sopite militanze giovanili. Dopo Monti arriva il Napolitano bis e sotto la sua protezione il nuovo governo nasce sul quadrilatero post Dc Letta-Alfano-Lupi-Franceschini e vorrà pur dire qualcosa.
Quando il primo agosto la Cassazione conferma la condanna del Cavaliere e il governo a giorni alterni comincia a fibrillare, nei conciliaboli privati le cosiddette colombe vanno in profondo imbarazzo. Si sbottonano. Berlusconi non metabolizza la condanna, si vede braccato e in trappola, minaccia sfracelli e ricatta Palazzo Chigi e Quirinale. Assecondarlo dietro a falchi e pitonesse vuol dire affondare tutti, il paese ne uscirebbe a pezzi. Alfano e i giovani ministri Pdl questo lo sanno bene ma ci vuole un incidente come quello di sabato per affrancarsi. Letta & Alfano si fidano l’uno dell’altro, lo stesso con Lupi e Franceschini. C’è anche una contiguità generazionale a saldare il quadro.
Forse non tutti sanno che Alfano prima di strappare va dall’amico Enrico e gli chiede conto di Renzi. Io faccio il grande passo, scommetto su questo governo che dovrà portare il paese fuori dell’emergenza e la politica italiana nella terza repubblica, ma mi devi assicurare che Matteo non farà saltare il tavolo tra tre mesi, altrimenti mi triturano, è il senso del ragionamento. Il sindaco di Firenze, pure lui di scuola democristiana, ha bisogno di tempo per consolidarsi e controllare il Pd prima di puntare a Palazzo Chigi, accetta dunque un patto a tempo con il premier. Siamo al famoso incontro di ieri Letta-Renzi, dopodichè il premier, a sorpresa, respinge le dimissioni dei ministri Pdl. E’ quello il segnale finale perchè tutto si tiene sotto l’occhio vigile e benevolo del Colle che lascia fare e benedice. Se in televisione i panzer della fronda sono i sanguigni Giovanardi e Cicchitto, che rispolvera la verve di quando era lombardiano e attaccava Craxi da sinistra, la verità è che Berlusconi se lo sono cucinati i democristiani…
Il resto è cronaca di queste ore. Il Cavaliere crede fino all’ultimo di poter recuperare gli scissionisti poi stamattina quando capisce che il gruppetto è numeroso e ha i numeri per salvare Letta è costretto a rientrare e votare la fiducia. Ma è il gesto obbligato di un leader confuso e alle corde, costretto a negoziare in casa sua da posizioni di debolezza. Non c’è alcun genio da esibire questa volta, nessuna furbizia sopraffina, solo il surrogato di una resa.
Così chi pensava che le larghe intese fossero nate per salvare Berlusconi adesso si ritrova spiazzato, con una riga tirata sulle convulsioni della seconda repubblica e il tentativo difficoltoso di avviare la terza che normalizzerebbe finalmente questo paese: una nuova generazione alla guida dei principali partiti politici, a destra come a sinistra, e al governo del paese. E in pensione i protagonisti del bipolarismo di guerra di questi ultimi vent’anni. Sarà davvero così? La partita è tutta da giocare. Ma senza lo strappo di oggi non saremmo neanche qui a discuterne…