Quasi gli è andato il caffè di traverso, ha afferrato la sua copia del Corriere della Sera e l’ha scagliata oltre la scrivania Luigi XVI, poi ha sollevato lo sguardo verso Maria Rosaria Rossi, la senatrice, sua particolarissima e morbida assistente, con uno sguardo tra la sorpresa e la rivendicazione, “io non sono morto”. Poco dopo, ad Arcore, fa il suo ingresso Angelino Alfano, il Delfino che ha vinto la battaglia dei numeri in Senato, ma che pure sa di doverselo ancora tenere al fianco il suo anziano Cavaliere, più debole magari, ma sempre ingombrante com’è, perché senza Berlusconi, Alfano sa bene che non ci sono finanziamenti, non ci sono giornali, non ci sono televisioni amiche. E dunque il Delfino conserva per il Cavaliere, malgrado tutto, una benignità incitata dal calcolo. Così va a trovarlo, lo blandisce e ne è blandito. Ma quando stamattina entra nello studio di Arcore, Alfano lo trova, come per altro già prevedeva, di pessimo umore, tetro.
“Hai letto il Corriere stamattina?”; “sì”; “quello è uscito di senno, adesso lo chiamiamo insieme”. E “quello” altri non è che Raffaele Fitto, l’ex governatore della Puglia, ambizioso, abile navigatore, un altro giovane democristiano, un altro che, come Enrico Letta e Angelino Alfano, sta sempre a galla come un sughero, lui che al giornale di via Solferino ha appena rilasciato un’intervista nella quale chiede il congresso del Pdl. Fitto ha radunato le sue truppe, ha formato un correntone contro il Delfino e dà per scontato che il Cavaliere sia fuori gioco, non lo cita nemmeno nell’intervista, mai, come se Berlusconi non esistesse, come se fosse già in manette, come se fosse morto. Piuttosto l’attenzione di Fitto è tutta rivolta all’altro grande e giovane ambizioso che con lui condivide la scena, cioè Alfano: devi fare i conti con me, gli fa sapere Fitto, il partito non è tutto tuo, ce lo dobbiamo dividere.
Il Cavaliere legge sempre il Corriere della Sera come primo giornale, lo prende con il caffè, e dunque, come ogni mattina, legge il titolo d’apertura – “sfida per la guida del Pdl” – ma stavolta si rabbuia, parecchio. Poi legge anche le prime righe dell’articolo e si fa livido in volto, a metà del pezzo scaglia tutto il giornale sul tappeto persiano dello studio, “chiamatemi Fitto al telefono”. Quando gli dicono che la linea del suo giovane ex ministro è occupata, per poco il Cavaliere non frantuma anche il telefono contro il muro. E’ in quel momento che entra Alfano.
Il vicepremier, di fronte al suo anziano padrino, probabilmente dissimula la soddisfazione che deve covare dentro per l’errore infantile del suo nuovo avversario interno al partito. Si vorrebbe fregare le mani, ma deve trattenersi. Con morbidezza di giocoliere lui è riuscito a prendere il potere senza troppo attrito, “ha accoltellato Berlusconi senza versare una sola goccia di sangue”, come dice Daniela Santanchè. Alfano ha conquistato la toga del potere, e adesso s’è affiancato il Vecchio Sovrano, ancora padrone del casato, delle aziende, dei quattrini. E dunque assiste, intimamente felice, alla telefonata rabbiosa che Berlusconi finalmente sbatte nell’orecchio del povero Fitto: “Sei diventato matto? Io sono ancora qua, il passaggio dei poteri lo gestisco io”. Mai prima d’oggi il Cavaliere aveva avuto, così limpida, l’antivisione d’un futuro in cui non conta più nulla. Fitto vorrebbe fare il congresso mentre lui sarà consegnato ai lavori socialmente utili, mentre lui rischia – o per lo meno così teme Berlusconi – anche l’umiliazione del carcere. “Questo partito è ancora il mio”.
La vittoria di Alfano è dunque totale, come confessa agli amici, rassegnato e infelice, persino Denis Verdini, il falco sconfitto, il nemico di Letta, “Berlusconi ha scelto di stare con i traditori”. Niente congresso nel Pdl, niente conta interna, Berlusconi non vuole, è lui che sceglie, è lui che designa, è lui che stabilisce come uscire di scena. Il partito è di Alfano, ed è suo anche per volontà del Cavaliere, non ci sono altre soluzioni. Così il vicepremier, e segretario del Pdl, lasciata Arcore, riprende la macchina, ed è ancora sul vialetto di Villa San Martino quando comincia a dettare una dichiarazione per le agenzie. Enrico Letta ha appena annunciato in televisione, a Sky, la fine del Ventennio berlusconiano, e per Alfano l’occasione è d’oro, due piccioni con una fava. Così, al telefono detta alla sua segretaria una rivendicazione di potere, di maestà personale, mascherata da rispetto per il suo ex padrino malconcio: «Non accettiamo ingerenze. Berlusconi è ancora oggi il leader». E insomma s’intuisce che il governo delle larghe intese è solido come non mai, sorretto dai nuovi padroni della transizione italiana, Letta e Alfano, soci, compari, partner, più forti dei loro stessi partiti, incredibilmente sostenuti anche da un Cavaliere che s’è ormai consegnato al suo ex Delfino.