Dopo Bin Laden Al Qaeda non è mai stata così forte

Morto il leader si è riorganizzata

Il doppio raid americano in Libia e Somalia, che ha portato alla cattura del terrorista Abu Anas al Libi, uno dei responsabili degli attacchi del 1998 alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, è il segno della rinnovata preoccupazione di Washington verso il terrorismo.

Raramente un’Amministrazione che ha fatto affidamento sull’uso massiccio dei droni per fiaccare la rete del terrore ha autorizzato operazioni delle forze speciali fuori dal perimetro degli scenari di guerra. Quando lo ha fatto era per via dell’enorme valore simbolico e strategico dell’obiettivo (Bin Laden), oppure per mandare un segnale di forza a chi pensava che l’America di Obama stesse frettolosamente impacchettando le cianfrusaglie della guerra al terrore di Bush. Ordinare un’incursione dei Navy Seals in casa del nemico è operazione rischiosa, come dimostra il raid somalo per catturare o uccidere il leader di al Shabab Mukhtar Abu Zubayr: dopo ore di combattimenti attorno al compound dove alloggiava Abu Zubayr, nella città di Barawe, il commando americano è stato costretto alla ritirata senza avere portato a termine la missione. L’esito, però, non toglie nulla al significato politico della mossa di Obama, leader che mostra risolutezza proprio quando si moltiplicano i segni della sua fragilità, e ricorda all’America che al Qaida è tutt’altro che sconfitta. Prima dei raid del fine settimana diversi eventi, dal Kenya alla Siria, hanno ricordato la forza del terrorismo islamico e della sua rete in perenne espansione.

Il 21 settembre un commando di terroristi somali di al Shabab ha fatto irruzione in un mall di Nairobi, in Kenya, uccidendo oltre Settanta persone prima di asserragliarsi dentro il centro commerciale “Westgate” con gli ostaggi sopravvissuti. Mentre trucidavano gli avventori gridavano “Allahu Akbar” e facevano domande in arabo per separare i musulmani dagli altri. Ai primi è stata risparmiata la vita, agli altri no. La presenza, testimoniata da più fonti, di alcuni americani e di una ragazza inglese fra i terroristi non deve stupire.

Poliziotti a Chisimaio, in Somalia (Stuart Price/Afp)

La storia del terrorismo somalo recente è piena di americani di origine somala – specialmente dalla comunità di Minneapolis e St. Paul, la più popolosa – che decidono di tornare in patria per arruolarsi con un gruppo la cui ideologia nasce dall’incontro fra il radicalismo islamico e il nazionalismo somalo. Altri testimoni hanno detto alle televisioni keniote di aver visto fra gli assaltatori molti stranieri, probabilmente arabi, facilmente distinguibili dai somali. La scelta del luogo, la preparazione militare e le infiltrazioni di guerriglieri stranieri sono testimonianze dell’enorme capacità raggiunta dal gruppo. A Nairobi i somali controllano il quartiere di Eastleigh, dove hanno fatto confluire grosse quantità di denaro provenienti dalla pirateria nel Golfo di Aden, ma Westgate è fuori dal tradizionale raggio d’azione dei terroristi. E’ in uno dei simboli della crescita della middle class africana che il gruppo ha mostrato la sua crescita.

Pochi giorni più tardi, in Siria, tredici gruppi ribelli hanno abbandonato la coalizione di resistenza con base in Turchia, e sponsorizzata dagli americani, perché non “rappresenta i nostri interessi”, dicono in una nota. I miliziani che lottano contro Bashar el Assad sono confluiti nel fronte di al Nusra, la scheggia siriana dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, il brand di al Qaida nell’area. Con un comunicato hanno spiegato lo scopo della loro nuova affiliazione: “Unire le forze in un chiaro quadro islamico basato sulla Sharia, che deve essere l’unica fonte della legge”. Il 23 maggio 2013 l’emiro di al Qaida, Ayman al Zawhairi, ha elevato al Nusra al rango di “affiliato” del cuore operativo del terrore.

I due eventi – l’attacco a Nairobi e il cambio di casacca di una parte consistente dei ribelli siriani – non sono direttamente collegati fra loro, ma suscitano alcune domande comuni: quanto è potente al Qaida oggi? Qual è la sua struttura? E’ ancora un’organizzazione governata da un comando centrale e affiancata da gruppi consentanei oppure è diventata una materia più fluida? Katherine Zimmerman, analista di terrorismo presso l’American Enterprise Institute, un think tank di Washington, sostiene che “al Qaida non è mai stata così forte”.

Ribelli siriani a Deir Ezzor (Afp)

Nel suo recente studio The al Qaeda Network: A New Framework for Defining the Enemy spiega che il network terroristico che fa capo a Zawhairi si sta espandendo, anche se non secondo i parametri con cui la comunità politica americana ha inquadrato il modus operandi di al Qaida. La base ha fatto una grande operazione di decentramento in cui si distinguono affiliati e associati. Gli associati sono forze semi-indipendenti che intraprendono azioni non direttamente ordinate dalla cerchia di Zawhairi; con i meriti guadagnati sul campo possono salire al rango di “affiliati” che rispondono direttamente al nucleo centrale, come successo ad al Qaida nella penisola araba, la branca più importante del gruppo del terrore. Questo meccanismo “non ha reso al Qaida più debole”, scrive Zimmerman, anzi “la relazione fra affiliati ha aumentato la resistenza generale del network” e i rapporti orizzontali sono la garanzia della sopravvivenza della rete anche nel caso che la leadership centrale cada. 

E del resto la leadership centrale è già caduta una volta, con l’uccisione di Osama Bin Laden, ma il trauma è stato superato con un’agile operazione di riorganizzazione. Il valore simbolico, per l’America e per Barack Obama, dell’eliminazione di Bin Laden è incommensurabile, ma in termini strategici è un successo mutilato. La tesi di Zimmerman è che concentrarsi su Bin Laden e sulla leadership centrale, ha portato l’apparato antiterrorismo a sottovalutare la reale forza della rete. Obama ha ordinato una campagna di droni e incursioni senza precedenti, ha eliminato centinaia di comandanti di al Qaida, ha dato ordine di stringere l’obiettivo sui singoli obiettivi, coltivando l’idea che a forza di bombardamenti mirati la leadership di al Qaida si sarebbe sfaldata. L’uccisione di Bin Laden è la sintesi celebre di un metodo applicato a tappeto, dal Mali al Pakistan.

Questo fino al punto in cui il presidente ha preso a dire in pubblico che al Qaida è “on the run”, in rotta, i suoi capi sono isolati, la capacità operativa ridotta al minimo, il consenso delle popolazioni locali inesistente. Tutto il resto è “leaderless jihad”, quella zona grigia fatta di fondamentalisti autodidatti e associati spontanei che appoggiano la causa del terrore senza far parte della struttura. Senonché i “lupi solitari” che hanno colpito – come nel caso di Boston – o tentato di colpire negli ultimi anni l’America si sono rivelati assai poco solitari. Ogni attentatore è riconducibile a un network associato in qualche forma ad al Qaida: che siano i jhiadisti ceceni o la corte di Anwar al Awlaki – imam americano ucciso in Yemen nel 2011 e grande catalizzatore di aspiranti martiri – dietro a ogni lupo solitario si trovano i segni di una struttura.

Twitter: @mattiaferraresi

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