Il timore di Renzi: morire democristiano con Letta

Il sindaco nella strettoia centrista

Un giorno è come se avesse già in mano il partito, e con il Pd, anche la candidatura a Palazzo Chigi, un altro giorno ha solo il partito, un altro ancora nemmeno quello. E adesso davvero Matteo Renzi si sente come un tronco d’albero gettato sulla spiaggia, ripreso dall’onda, rigettato, ripreso, con una monotona, indifferente pendolarità.

La conquista del potere da parte di Enrico Letta e Angelino Alfano con i loro modi orientali e dorotei, l’eclissi di Silvio Berlusconi, l’emergere tutt’intorno al governo di questa nuova forza, così vischiosa, giovane, democristiana e avvolgente, è un’incognita tormentosa e ubriacante per il sindaco di Firenze. E il suo destino, adesso, come mai prima d’ora, è un balletto d’incertezze. Non ci saranno le elezioni e dunque non farà il candidato premier, ma ci sarà il congresso e forse farà il segretario, eppure in mezzo, sulla strada della gloria, c’è sempre quell’Enrico Letta che sarà pure lento, d’una irragionevole pazienza, felpato al parossismo, ma che è pur composto della stessa materia dei Forlani e dei Moro, dei Fanfani e degli Zaccagnini, la sostanza più durevole e tenace che l’Italia politica abbia mai conosciuto, dotata d’un eternità di foresta. E dunque ecco il dubbio che tortura, il tarlo oscuro che rode ogni renziana certezza, il Rottamatore si chiede cosa vogliano davvero Letta e Alfano, i due soci, padroni forse non soltanto del governo ma persino d’un nuovo patto sociale. Abbatteranno quel bipolarismo da cui sono nato e che so dominare? E questo dubbio, che gli rimbalza nella mente, è per lui una terribile sofferenza.

Letta lo ha invitato a Palazzo Chigi, appena pochi giorni fa, per pranzare insieme, per tentare di capirsi, di raggiungere un accordo di coesistenza. Non è stato il loro primo, incandescente momento d’intimità, eppure, nessuno dei due ha saputo da che parte prenderlo senza scottarsi. Si sono parlati, non si sono capiti fino in fondo, ma, tra sguardi di perplessa diffidenza, i due leader del Pd si sono alla fine accordati. Letta chiedeva una tregua, una pausa alle ostilità contro il governo, un po’ di tempo per immergere con efficacia le mani nel pazzo ribollire del Pdl e salvare così la grande coalizione dalle fiamme berlusconiane. E Renzi era incline ad accordare la tregua, senza crederci troppo, confidando nel sicuro insuccesso, o in una vittoria effimera, e senza nemmeno sospettare che invece, dal caos in cui sprofondava il governo appena tre giorni fa, Letta avrebbe saputo raddrizzare le larghe intese, abbattere Berlusconi e indirizzarsi verso una lunga, lunga, navigazione di governo.

Appena uscito da Palazzo Chigi, il Rottamatore deve essersi fregato le mani cullando l’idea che il Cavaliere si stava addossando la colpa di far crollare la grande coalizione, che dunque le elezioni e la sua candidatura alla guida del centronistra stavano lì, ormai a un passo. E invece no. Per lui, come per il Cavaliere sconfitto, la prospettiva s’è completamente rovesciata precipitandolo in una strana condizione di precarietà. Un’esistenza irta di silenziosi dilemmi, di profumi contraddittori, di irrimediabili vuoti. Sono ancora, o non sono più l’uomo del destino?

Arrembante ed egotico, il sindaco di Firenze incarna il bipolarismo, divide, rifiuta la logica consociativa e concertativa, prima decide e poi forse chiede, non ama i sindacati e nemmeno la Confindustria, ha fatto gli scout ed è cattolico, ma non ha niente del democristiano vecchio stampo, in politica non ama gli arabeschi, parla male ma parla dritto. E in definitiva Renzi non è un galleggiatore da palude primorepubblicana, ma un figlio della televisione commerciale, della Seconda Repubblica e dunque del Cavaliere, il più controverso artefice del bipolarismo all’italiana.

Renzi sa bene di non poter vivere in un sistema modellato a immagine e somiglianza di Letta e Alfano, i compari delle larghe intese, padroni della transizione italiana, loro che invece s’intendono alla perfezione perché, gratta gratta, s’assomigliano. Entrambi galleggiano come sugheri in Parlamento, condividono la medesima natura, l’eterno e misterioso fascino del dire e non dire, dei passettini, delle graziose futilità, del perdere tempo per guadagnare tempo, dell’arabesco inteso non soltanto come fatica della politica ma addirittura come fine della politica stessa. E dunque Renzi li osserva, così lontani da lui, e ne teme le mire, le mosse, le trame. Sa che per il presidente del Consiglio e il suo vice non vale il motto popolare che recità così: “Il gatto con i guanti non acchiappa topi”.

Per tutta la vita Letta e Alfano hanno acchiappato topi con i guanti. E dunque il Rottamatore trema all’idea che possa nascere un nuovo grande centro, sa bene cos’è la doppiezza democristiana perché l’ha conosciuta da ragazzino, e riconosce la propria fine nella sola eventualità che l’Italia ripiombi, con Letta e Alfano, nella politica dei due forni, quella di Andreotti, la vecchia volpe che usava due opportunità che teoricamente si escludevano, lui che traeva vantaggi sia dalla destra sia dalla sinistra. Fine meschina sarebbe per Renzi diventare un piccolo forno dove cuocere il pane altrui. Ma l’enormità stessa della cosa, adesso, gli fa nascere il dubbio di aver ormai dato corpo a un’ombra. 

Twitter: @SalvatoreMerlo

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