Per Jamie Dimon il problema maggiore non sono tanto le fee legali. Non sono tanto gli abbandoni di alcuni clienti. E non sono tanto nemmeno gli attacchi dei politici. A infastidire quello che era considerato il re di Wall Street è l’onta di aver sbagliato in quello che era un business consolidato, il trading. Per J.P. Morgan è arrivata la prima perdita trimestrale della gestione Dimon ma, come dicono le persone a lui vicine, questo importa relativamente. Poco importa delle cifre monstre, come i 7,2 miliardi di dollari sborsati per le spese legali per il “London Whale” gate. Il compito è uno solo: tornare a essere un benchmark per tutti.
Jamie Dimon non è Lloyd Blankfein. J.P. Morgan non è Goldman Sachs. Sono le regine di Wall Street, ma sono regine complementari. La prima più operativa, la seconda più politica. Ma da punto di vista del management, è l’esatto contrario. Dimon è il banchiere più politico che la finanza statunitense ricordi dai tempi di Larry Summers, mentre Blankfein – ex trader di metalli – era ed è poco avvezzo ai giochi politici che negli ultimi anni hanno caratterizzato Wall Street. Dimon no. E per questo ha trattato, e continua a farlo, con le autorità finanziarie statunitensi per regolare gli sbagli della banca che rappresenta. Quello che importava era chiedere questo trimestre. Operazione riuscita con una limitazione delle perdite operative. Se è vero che il terzo trimestre dell’anno si è chiuso con 23,880 miliardi di dollari di fatturato, è altrettanto vero che la perdita netta è stata di 380 milioni di dollari. Frutto delle cause che ha visto coinvolta, e vedrà ancora nei prossimi mesi, la più influente banca di americana.
La storia di J.P. Morgan è fatta di tantissime luci e poche ombre. Ancora oggi i banchieri di Wall Street irridono Dimon per cosa è successo con Bruno Iksil, la “London Whale” che decise, violando i sistemi di controllo interni, di investire (o sarebbe meglio scrivere, giocare) così tanti soldi sul Markit CDX North America Investment Grade Series 9 10-Year Index, chiamato anche CDX IG 9, un indice basato su Credit default swap (Cds), i derivati finanziari che fungono da assicurazione contro il fallimento di un asset. I 6,3 miliardi di dollari di perdita provocati da Iksil hanno provocato una reazione a catena che ha costretto le autorità finanziarie di mezzo mondo a fare delle scelte. Punire severamente JPM, in modo da dare un segnale a tutti gli operatori, o far finta di niente, dando una sanzione del tutto simbolica? Si è scelta la prima opzione. Colpa del collasso di Lehman Brothers, che ha sancito il completo distacco fra Wall Street e Main Street.
Da salvatore della patria, bloccato solo dalla politica, a capro espiatorio della crisi, Dimon è come un leone ferito. Tuttavia, nessuno dimentica quando J.P. Morgan si prese sul groppone Bear Stearns, una delle maggiori banche del Paese, crollata sotto i colpi delle svalutazioni sui mutui subprime nella primavera del 2008. Prima di Lehman Brothers, quindi. E nessuno dimentica quando nel settembre 2008, alla vigilia del crac Lehman, il numero uno della Federal Reserve of New York, Timothy Geithner, convocò una riunione di emergenza proprio su indicazione di Dimon con l’unico fine di proteggere il sistema finanziario globale. Fu puoi Hank Paulson, segretario del Tesoro ed ex capo di Goldman Sachs, a sancire la fine della quarta banca di Wall Street, dando il La alla più massiva turbolenza finanziaria dal Secondo dopoguerra.
La rivoluzione di Dimon, nell’universo finanziario post Lehman, doveva essere quella della trasparenza. Lo aveva detto nell’agosto 2008, prima che crollasse la banca di Dick Fuld. Lo aveva ribadito il 13 aprile 2012, quando il caso della “London Whale” salì alla ribalta. E, come fanno notare diversi osservatori di Wall Street, questo sentimento è emerso anche oggi. «Serve più trasparenza in ciò che succede nel back-end delle banche, non ci possono più essere errori di tale tipo, derivati da lacune operative e procedurali», dice a Linkiesta Daniel Alpert, managing partner di Westwood Capital. «Quello che conta è essere chiari coi clienti. La fiducia è tutto», continua Alpert. Una fiducia che però per J.P. Morgan è finita nel dimenticatoio quando è emerso lo scandalo Iksil. E poco importa che a vigilare dovevano esserci Doug Braunstein, numero uno della divisione investment banking, e Ina Drew, ex chief investment officer della banca.
Cosa ne sarà di J.P. Morgan? La memoria degli operatori finanziari funziona in base al profitto. Più è elevato, minore è la memoria storica. «Tutto tornerà come prima, fino al prossimo scandalo finanziario», ha tuonato Andrew Ross Sorkin sul New York Times. Probabilmente è così, ma ci potrebbero essere due deterrenti. Il primo è rappresentato dai danni d’immagine. Dal punto di vista mediatico, il “London Whale” gate è stato un dramma. E il primo a metterci la faccia è stato Dimon. Di riflesso, tutta la banca, che da centro dell’eccellenza nell’investment banking è diventata agli occhi di molti il simbolo dell’avidità di Wall Street. Il secondo deterrente, invece, sono le sanzioni. I 7,2 miliardi di dollari che ha dovuto sborsare J.P. Morgan solo per le spese legali sostenute per far fronte al caso Iksil fanno paura. «Ed è difficile che si ripetano situazioni del genere – sottolinea Alpert – dato che nessun banchiere vuole fare la figura dello stupido di fronte a Capitol Hill». JPM come paradigma per le good practices bancarie per la Wall Street del futuro? Sarà solo il tempo a dirlo.
Il futuro vedrà un deleveraging ancora più spinto. Sia per le banche statunitensi sia per quelle europee, le regole contabili di Basilea III imporranno requisiti patrimoniali tali da prevenire shock sistemici come quelli vissuti negli ultimi cinque anni. A fronte di sistemi finanziari sempre più interconnessi e dipendenti gli uni dagli altri, J.P. Morgan ha la possibilità di essere l’esempio, tramite una trasparenza fuori dal comune e una prudenza che, se non ci fosse, può costar caro. Riuscirà a farcela?