Da martedì scorso i giornalisti sportivi inglesi sono al settimo cielo: è uscito “My Autobiography”, il libro in cui Sir Alex Ferguson si racconta dopo l’addio alla panchina del Manchester United. E’ festa grande. All’interno c’è parecchia carne al fuoco. In attesa che l’opera giunga in Italia, già se ne conoscono i passaggi chiave e i co-protagonisti.
Al cento ovviamente c’è Sir Alex: da David Beckham (“pensava di essere più importante di Alex Ferguson”) a Wayne Rooney (è ripercorsa la saga sul rinnovo del contratto), da Rio Ferdinand (“Credi ti renderà un centrale migliore?”, gli chiese a proposito delle serate con il rapper P Diddy) a Rafa Benitez (“molto preoccupato del suo curriculum”) e Roy Keane, il centrocampista irlandese per dodici anni alla corte dello United, collega di reparto di Paul Scholes (impossibile immaginarli separati).
Sfogliando “My Autobiografy” si scopre che Ferguson e Keane se ne sono date di santa ragione. “Non sa cosa sia la lealtà”, ha dichiarato l’irlandese dopo aver appreso alcune delle anticipazioni che lo riguardano. “Pensava di essere Peter Pan. Nessuno lo è”, scrive infatti Ferguson. Più si avvicinava la fine della carriera calcistica – prosegue – più Keane peggiorava caratterialmente, con l’apice dello scontro raggiunto al ritiro pre-campionato a Vale do Lobo, in Portogallo, quando Keane si lamentò dell’organizzazione e della sistemazione della squadra. In mezzo una serie di commenti irriverenti nei confronti del difensore Kerry Richardson (“pigro”) e Darren Fletcher (“mi domando come facciano gli scozzesi ad entusiasmarsi per lui”) che hanno acuito lo strappo tra i due. “Roy li stava smontando tutti”, accusa oggi Ferguson portando direttamente il lettore nello spogliatoio, luogo che resta sacro solo nell’immaginario d’antan. Ogni fine settimana oramai le telecamere si intrufolano nei corridoi perché gli sportivi della poltrona possano sentirne i rumori e annusarne metaforicamente gli odori, contenti loro.
In fila con il libro (e la maschera) di Sir Alex (Afp)
È tutto fittizio, ma qualcuno si gaserà pure. Un’evoluzione delle telecronache calcistiche arrivata troppo tardi per vedere Filippo Inzaghi correre in bagno prima del calcio d’inizio, sollecitato dagli omogeneizzati ingoiati come Andrea Pirlo ha rivelato a sua volta in “Penso quindi gioco”, scritto a quattro mani con l’inviato di Sky Alessandro Alciato. Tanto meglio per Inzaghi che è riuscito a salvare la sua routine dagli occhi indiscreti di chi tutto vuol vedere e non percepisce il limite, abituato ad intrufolarsi in spazi che non conosce. Ad interrogare infatti chiunque abbia frequentato attivamente un qualsiasi spogliatoio l’espressione di perplessità è pressoché la stessa: dietro a quelle porte c’è un mondo a sé, tipo Las Vegas e “what happens in Vegas stays in Vegas”.
La fine della storia tra Ferguson e Keane era faccenda risaputa, i due si sono beccati a più riprese negli anni recenti. E che l’allenatore scozzese voglia condividere con i tifosi le emozioni che ha provato è comprensibile, ma quest’autobiografia non è un romanzo alla “Il maledetto United”, il libro in cui David Peace, attraverso una dettagliata ricostruzione basata sulla consultazione di documenti ed articoli, immagina i giorni di gloria e fallimenti di Brian Clough. È piuttosto un’altra intromissione nella sacralità dello spogliatoio. È una mazzata ai retroscena e ai pettegolezzi (la scarpetta lanciata sul sopracciglio di Beckham, il soprannome di “hairdryer”, asciuga capelli, per l’intensità dei rimproveri faccia a faccia), elementi che contraddistinguono il distacco tra due mondi: le stanze che contano e il popolo all’esterno.
In anni di cambiamenti storici repentini, di nuovi equilibri mondiali e di fatiche economiche continue, si è fatta strada da una parte l’indignazione facile, a colpi di tastiera e maschere di Guy Fawkes o presunte opere d’arte raffiguranti diti medi piazzati davanti a Piazza Affari o al palazzo presidenziale di Praga; dall’altra chi detiene le chiavi dei luoghi simbolo concede quote di condivisione: Barack Obama riesce meglio in fotografia – o quando canta allo specchio – che al lavoro: le foto scattate pure durante i briefing d’emergenza si rincorrono, prestando il fianco all’irriverenza di Photoshop (il Commander in chief che gioca alla Playstation o guarda un film in 3D invece di seguire in diretta l’operazione per la cattura di Bin Laden). L’irrisione del potente è colpa del potente stesso.
In Italia prima ancora dei grillini, ci hanno pensato quelli de la Repubblica, piazzati ad onor di telecamera durante la riunione di redazione. Un’ora di discussioni sui massimi sistemi, quando anche nell’ultimo dei giornali di provincia la riunione di redazione è momento dedicato al cinismo, all’irrisione, all’arroganza e ad una sfilza di commenti politicamente scorretti – grazie al Movimento 5 stelle abbiamo presto scoperto l’inadeguatezza di chi si è intrufolato per sostituirsi a quelli già inadeguati. Nello sport sono le telecamere e le biografie a fungere da grimaldelli ad uso e consumo di chi ambisce ad essere un sapiente di calcio, ma che in uno spogliatoio non saprebbe manco dove appendere il cappotto.
Ci sono stanze che vanno tenute chiuse. Perché per entrarvi occorre essere in grado di trasformarle nei propri salotti o perché, meglio ancora, è meglio non sapere ciò che vi accade per vivere più sereni e non essere corrosi dall’indignazione da ciucca violenta.
Twitter: @dariomazzocchi