Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Nel paese appestato da scandali di ogni genere, nell’Italia del doping e di calciopoli, dell’evasione fiscale diffusa, della corruzione politica e amministrativa, del malcostume come bandiera nazionale, del capitalismo straccione, parassitario e colluso che ha spolpato Telecom, ebbene in questo paese – il nostro paese – i banditori unici della morale hanno deciso che Anna Maria Cancellieri debba pagare pegno per la sua amicizia quarantennale, affettuosa e certamente non corrotta, con la famiglia Ligresti, la dinastia meno specchiata della finanza italiana.
La sua telefonata e il suo interessamento per le condizioni di salute di Giulia Maria Ligresti sono state evidentemente una debolezza, rappresentano un vulnus, e su questo non c’è dubbio, un vulnus persino alimentato, accresciuto, dalla grande qualità umana del ministro, figura integerrima e al disopra delle parti, donna che si è guadagnata negli anni un profilo di cui l’Italia martoriata dalla faziosità animosa e dall’inciviltà politica avrebbe grande bisogno. Non è un caso che il suo nome, prima della rielezione di Giorgio Napolitano, fosse sulle labbra del centrosinistra e di tutte le persone di buon senso che ancora abitano i Palazzi romani, la si voleva eleggere alla presidenza della Repubblica, al Quirinale. L’Italia degli spasmi e delle contrazioni violente, il paese di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo, dei rutti e delle eterne rivoluzioni, costretta com’è, da vent’anni, a saltare nei cerchi di fuoco d’una politica agitata e inane, è alla disperata ricerca di un po’ di normalità, senso della misura, pulizia, grammatica civile. Così l’inciampo veniale della signora Cancellieri è tanto più grave e disperante perché il ministro era (è ancora?) una delle poche figure sulle quali tentare di recuperare la trama smagliata dell’Italia istituzionale. Ma qual è il reato di cui la si accusa?
Anna Maria Cancellieri non è indagata dalla procura di Milano, i magistrati hanno cercato, nelle intercettazioni, tra gli interrogatori, nelle dichiarazioni spontanee dello stesso ministro, il reato di concussione, senza trovarlo. Ma c’è un altro reato, quello (morale) di frequentazione: essere amici degli infrequentabili Ligresti, imperdonabile trasgressione per un prefetto della Repubblica, delitto che gli accusatori giornalistici della Cancellieri tuttavia non hanno il coraggio di denunciare apertamente. Ma basta leggere la prima metà dell’editoriale che Marco Travaglio ha pubblicato oggi sul Fatto per annusare la sostanza maleodorante del reato di amicizia. “Quando Anna Maria Cancellieri diventò ministro dell’Interno, poi fu candidata al Quirinale, infine divenne ministro della giustizia, il Fatto – come sempre – segnalò i suoi potenziali conflitti d’interessi familiari legati alla vecchia amicizia con la famiglia Ligresti”, scrive Travaglio.
E allora? Cancellieri è da quarant’anni in amicizia, strettissima, con una delle famiglie più chiacchierate della finanza nazionale. Dunque è colpevole? Quarant’anni fa era vicina di casa e prendeva il caffè con quei costruttori di tetri cubi di cemento, pluri-indagati, devastatori architettonici di Milano, coinvolti nel più oscuro e fetido crac finanziario dai tempi di Cirio e Parmalat. Questo fa di lei una Ligresti? Il figlio del ministro, Giorgio Peluso, banchiere, con una lunga esperienza in Unicredit, è stato per un anno a capo della Fonsai, la compagnia assicurativa dei Ligresti, ha abbandonato quel posto in contrasto con la famiglia, ed è oggi il principale accusatore della dinastia, il manager cui i magistrati riconoscono, nelle carte, il merito di aver cercato di recuperare i buchi di bilancio. Questo è conflitto d’interessi? L’unico reato è questo: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Ed è puro Medioevo. Se la Cancellieri avesse frequentato la famiglia di Renzo Piano, di Gianni Agnelli o di Giorgio Napolitano, allora nessuno avrebbe detto niente.