Fenomenologia della (presunta) bolla dei social media

Tra finanza e futuro

Il problema non è capire se ci sarà una prossima bolla. È sicuro che ci sarà. Il difficile è comprendere come farla scoppiare. Twitter, Facebook, Linkedin, Groupon, Pandora, Zynga: sono solo alcuni dei nuovi acquisti di Wall Street. Tutti fanno parte del mondo dei social media. Un settore che sembra essere, e probabilmente è, in piena bolla. Basta osservare le Initial public offering (Ipo, cioè offerta pubblica iniziale) delle società del settore più in voga. Valori superiori di 50, 100 volte la quotazione iniziale, per un mercato del tutto nuovo che sta raccogliendo sempre più adepti e quindi capitali. Cogliere se siamo di fronte a investitori razionali o irrazionali è cruciale per individuare la prossima bolla finanziaria. E questa potrebbe essere la volta dei social media. 

Il Global X Social Media Index ETF è un Exchange traded fund (Etf), un fondo negoziabile come unazione. Nato nel 2011, monitora landamento delle azioni delle società quotate che si occupano di social media. A distanza di due anni ha toccato il proprio apice, proprio pochi giorni prima della quotazione al Dow Jones di Twitter, la cui Ipo era fissata a 26 dollari, mentre il valore delle azioni è presto schizzato oltre quota 50 dollari nelle prime ore di contrattazione. Il Global X Social Media Index ETF, nome in codice SOCL, sarà uno dei benchmark di riferimento per comprendere lentità del fenomeno finanziario dei social media. Non cè la certezza che questo mercato sia in bolla. Di sicuro, ci sono diversi segnali che fanno pensare che lo sia. Dalleuforia legata alle Ipo di Facebook e Twitter al grande flusso generalizzato di capitali verso le imprese del segmento, passando per quotazioni azionarie difficilmente spiegabili dai fondamentali delle imprese, cè solo una certezza. I social media sono il nuovo fenomeno (consolidato) di Wall Street. 

Ma cosa spinge così tanti investitori ad allocare le proprie risorse in questo segmento, in modo quasi vorace? Ci sono almeno tre ragioni. La prima è quella più semplice ed è legata alla Wall Street dopo il collasso di Lehman Brothers che, ancora oggi, rappresenta linizio del nuovo mondo della finanza globale. Al fine di rifarsi dalle perdite subite dopo il 15 settembre 2008 gli investitori hanno cercato disperatamente una valvola di sfogo. Obbligazioni? Interessanti, ma con poco rendimento. Commodity? Troppo volatili. Meglio le azioni, quindi. Ma non quelle classiche, non Corporate America, ancora legate alle malversazioni finanziarie create durante lespansione della bolla subprime, e quindi del mercato immobiliare statunitense. Non andavano bene nemmeno le azioni delle imprese legate alla green economy, complici dei processi di mutamento del fabbisogno energetico troppo lenti da essere sfruttati per ottenere ritorni facili, veloci e significativi. Meglio qualcosa di diverso, qualcosa che sembrasse immune alla crisi, agli eccessi della finanza che tanto hanno fatto indignare Main Street. Ecco quindi che, quasi naturalmente, la scelta è caduta sui social media. Non è un caso. Secondo unanalisi di Morgan Stanley nel periodo compreso fra il quarto trimestre 2010 e il quarto trimestre 2012 le società di venture capital statunitensi hanno erogato 65,5 miliardi di dollari alle startup, 7.077 nel biennio di riferimento. Il 6% del totale, poco meno di 4 miliardi di dollari, è andato nel segmento dei social media. Un cifra che può significare poco ma che, ricorda Morgan Stanley, «rappresenta uno dei maggiori flussi verso un singolo settore dai tempi delle società real-estate fra 2004 e 2006». Se è vero che cè stato un calo nei primi sei mesi del 2013, è altrettanto vero che sia nel terzo trimestre sia nel quarto il trend ha ripreso a correre, complice l’Ipo di Twitter. 

La seconda è legata al mutamento strutturale della società odierna. Oggi essere fuori da un social network significa non essere. Data la deflagrante espansione dei social media, le imprese hanno iniziato a sfruttare le potenzialità del settore. Pensiamo a un post su un pagina Facebook. In poco tempo, se condiviso dalle persone più influenti, si può viralizzare come con nessun altro mezzo. Come ha scritto l’Harvard Business Review nel luglio 2012, «la capacità di incisività di Facebook è cinque volte superiore a quella della stampa tradizionale». Questo concetto lo hanno capito in tanti. Non è un caso che siano sempre di più le app collaterali a Facebook, che garantiscono alle imprese un duplice ritorno: da un lato una maggiore personalizzazione delladvertising, dallaltro un risparmio sotto il profilo dei costi di transazione. E lo scenario è presto definito se a questi due aspetti si aggiunge uno sfondo fatto di Paesi emergenti, target di sempre più imprese che vi vedono un potenziale di consumo in crescita grazie ad un modello di sviluppo legato ai fattori di crescita occidentali e a un utilizzo di internet sempre più spinto. Le imprese legate ai social media, come le imprese pubblicitarie, fanno leva sul consumerismo di Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e Mikt (Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia) al fine di generare nuovi mercati. In questo campo, il social network creato da Mark Zuckerberg è stato il pioniere. Solo in India gli utenti attivi sono oltre 85 milioni, secondo un rapporto di Goldman Sachs il 75% di essi naviga da smartphone o tablet. E lo stesso dicasi per lIndonesia, in cui Facebook toccherà questanno una crescita del 51% rispetto lanno precedente. 

Internet non è destinato a entrare nella nostra vita quotidiana. Lo è già. Questo gli investitori lo hanno capito, perché lo sviluppo del mercato degli smartphone è ormai inarrestabile. Basti pensare che nel quarto trimestre 2006 sono stati prodotti 20,7 milioni di device mobili, secondo unanalisi di mercato compiuta da Citi. Nulla in confronto a oggi. Nel secondo trimestre dell’anno in corso sono state prodotte 237,9 milioni di unità. Avere un smartphone significa avere internet, e avere internet in ogni istante significa che per un’impresa si è un cliente potenzialmente esponibile ad advertising continuo. Avere internet su uno strumento così utilizzato come uno smartphone significa moltiplicare le possibilità che il proprio advertising sia visualizzato, anche grazie alla penetrazione dei social network nella vita di tutti i giorni. E dato che i Paesi emergenti hanno come modello quelli sviluppati, quindi anche il loro stile di vita e i loro brand, per le imprese (e gli investitori) operanti nel segmento dei social media la naturale conseguenza è unespansione.

Il merito è da cercare, oltre che nello sviluppo della società mondiale e nella nascita di nuovi classi medie, anche nel carattere totalmente scollegato a fattori ciclici del mezzo attraverso cui i social media operano, cioè internet. La rete è forse «lunico elemento economico la cui crescita è inarrestabile», come ha ricordato una volta uno dei guru di Wall Street, Carl Icahn. Questo perché le potenzialità per un internet sempre più veloce ci sono tutte. Dal modem 56k alla banda larga e il satellitare, e poi? Quale sarà la prossima frontiera? Gli investitori non lo sanno, ma sanno che non si può fare a meno di internet e che il mondo sarà ancora più connesso di oggi. Ci saranno delle evoluzioni, probabilmente delle rivoluzioni, ma lorizzonte di medio periodo è ancora composto dal www. Specie per i Paesi emergenti, l’accesso a internet costa sempre di meno e la natalità è sempre elevata, così come il livello di sviluppo, l’informatizzazione e la scolarizzazione. Tutti elementi che lasciano intendere un futuro roseo per i social media. 

Infine la terza ragione, che va a naturale complemento delle altre due. La bolla dei social media deriva anche dall’enorme mole di liquidità immessa tramite il Quantitative Easing (QE) dalla Federal Reserve americana. Soldi che dovevano finire da qualche parte, come abbiamo visto. Ma non è solo colpa della Fed. È lintero paradigma monetario introdotto con lo scoppio della bolla del mercato immobiliare statunitense che ha distorto il mondo finanziario, creando le condizioni per nuove bolle. Il regime di Zero-interest rate policy (Zirp), ovvero tassi dinteresse di riferimento delle banche centrali prossimi allo zero, ha permesso agli investitori di avere a disposizione denaro a basso costo e unadeguata protezione in caso di shock, dato che nessuna istituzione monetaria può permettersi una seconda Lehman Brothers. In altre parole, lo Zirp non ha azzerato né ridotto lazzardo morale, lo ha aumentato ma indirizzandolo verso nuovi orizzonti. Posti di fronte alla redditività zero dei settori tradizionali, gli investitori hanno iniziato a corteggiare quelli a più alto rendimento.

I rischi sono diversi. Il maggiore è legato alla saturazione del mercato. Troppe imprese per un numero finito di utenti. Se è vero che in questo caso entrano in gioco variabili demografiche e legate allo sviluppo economico degli Emergenti e dei Sub-emergenti, è altrettanto vero che gli utilizzatori finali di internet, e quindi anche dei social media, non saranno mai infiniti. Su questo versante è stata CB Insights, boutique di ricerca finanziaria americana, a lanciare lallarme. «La diversificazione dellofferta dei social media sarà cruciale per evitare squilibri fra domanda e offerta», scriveva in luglio il fondatore di CB Insights, Anand Sanwal. 

Poi, cè un rischio collegato al rallentamento dei Brics e dei Mikt. Con lassottigliamento del QE da parte della Fed, che avverà probabilmente nel corso del 2014, e con lexit strategy globale dallo Zirp, per gli Emergenti saranno necessari profondi cambiamenti del modello di sviluppo e dei fattori di crescita. Un ritracciamento sarà probabile, come già nel 2010 profetizzava Jim O’Neill, ex numero uno di Goldman Sachs Asset Management. E questo impatterà anche sui consumi, quindi sulla vendita di device e sulla pubblicità. Come riuscirà a reagire il segmento dei social media? Per ora non ci sono analisi di rilievo, come è tipico di ogni bolla. Il cigno nero, quellevento tanto distruttivo quanto improbabile secondo il mercato, potrebbe palesarsi e far crollare anche quello che fino al giorno prima era considerato un gigante. 

Infine l’ultimo rischio è rappresentato dagli stessi investitori. Qualora decidessero di optare per una maggiore diversificazione del portafoglio o cominciassero a ritenere che il segmento dei social media non fosse più profittevole come oggi, ci sarebbe un deflusso di capitali prima lento poi sempre più rapido. Per ogni bolla cè un picco, al quale corrisponde una discesa, che può essere più o meno ripida a seconda di come percepiscono i mercati il settore sopravvaluto. Conta la gradualità del ritorno alla normalità, non tanto lentità della bolla in sé.

George Soros, il finanziere più celebre di Wall Street, disse che non bisogna pensare che le bolle siano un problema di irrazionalità. «Le bolle non crescono dal nulla. Esse hanno infatti un solido fondamento nella realtà, solo che si tratta di una realtà distorta da un equivoco», disse ben prima di Lehman Brothers. Forse, se consideriamo i social media in bolla, lequivoco è ritenere che Facebook, o Twitter, o Linkedin, siano indispensabili e non sostituibili. La realtà, quella non distorta, potrebbe essere ben differente. 

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