Tra i giorni indimenticabili del secolo scorso trova il suo bel posto il nove di novembre dell’Ottantanove – era un giovedì – quando il muro di Berlino, costruito in gran fretta nell’estate del Sessantuno, veniva fatto crollare dalla forza degli eventi di un mondo che stava cambiando e dall’entusiasmo di una città che tornava a essere unita. Sono spesso nefaste, le date incise nella memoria; questa, invece, porta con sé un bel raggio di sole ed è per questo che la si ricorda più volentieri.
L’ALTRA PARTE DEL MURO
Il nonno abitava dall’altra parte del muro. Con lui abitava la nonna e con loro sette figli, uno dopo l’altro, dal più piccolo al più grande, i bisnonni, la prozia e anche una cugina venuta da chissà dove, ma che pareva aver sempre abitato con loro. Di là dal muro la città era piena, zeppa, stracolma di nonni, nonne, prozie, marmocchi, neonati, giovincelli e cugine venute da chissà dove. Ogni famiglia era un piccolo mondo molto abitato, ogni appartamento era una piccola città e ogni stanza una piccola piazza, dove incontrare chi passava anche per caso. E le case erano una accanto all’altra, senza spazio per respirare o per sbirciare l’orizzonte.
Si stava stretti, dall’altra parte del muro, ed era bello quando si aveva voglia di stare in compagnia, un po’ meno quando si preferiva starsene per conto proprio. Allora il nonno, ogni tanto, prendeva il cappello e lo posava in bilico sopra il suo testone, dava una carezza al più vicino dei sette figli, un bacio alla nonna e saliva al piano superiore. Da lì usciva sul balcone, lo scavalcava e camminava per qualche metro sul tetto sotto i suoi piedi, fino a raggiungere il ramo di una quercia, vi si aggrappava e si arrampicava, tenendosi forte al tronco. Di lassù riusciva a dimenticare per qualche istante il mondo là sotto e il cuore e il sorriso gli si aprivano, alla vista del mondo di qua del muro, tutto sommato a pochi metri da lui, ma con un mattone sopra l’altro a segnare il confine. Poi il nonno scendeva, rinfrancato dall’immagine dei prati verdi, il cielo sereno e l’aria frizzante e se ne tornava stretto stretto al mondo di là.
Finché un giorno il nonno, cappello sulla testa, carezzò tutti sette i suoi figli; abbracciò la nonna e la baciò più a lungo del solito; concesse pure un sorriso alla cugina venuta da chissà dove, quindi salì, uscì, scavalcò e, raggiunta la quercia, anziché arrampicarsi si aggrappò al ramo e si lasciò andare, come un Tarzan con la cravatta, lanciandosi nel vuoto sopra le teste dei suoi concittadini, per volare leggero oltre il muro e atterrare tra le margherite.
Si guardò intorno un po’ spaesato, il nonno, che sbirciare di qua del muro ed esserci erano cose molto diverse, poi spolverò la terra dalle ginocchia, si tolse le scarpe e si mise in cammino scalzo sull’erba.
Di qua del muro c’era spazio per tutti. Molto spazio, anche per starsene per conto proprio. I profumi erano intensi, i sapori gustosi e ogni cosa pareva migliore di quanto fosse di là.
Non passò, però, molto tempo che, incuriositi dal gesto del nonno, anche la nonna, i sette figli, i bisnonni, la prozia e la cugina cominciarono a sbirciare dal ramo della quercia. E con loro anche i vicini, il panettiere, il farmacista, i compagni di scuola e, via via, tutti gli abitanti dell’altra parte del muro. Di più: a metà strada tra l’incoscienza e il coraggio, uno dopo l’altro saltarono anche loro il muro, atterrando sulle margherite che, poverette, appassirono in fretta.
In pochi mesi di qua del muro finì per esserci più gente che di là. Molta più gente. Troppa più gente. In città si stava stretti stretti, le case erano affollate in ogni stanza e per strada non c’era modo di trovare parcheggio.
Non si lamentava, il nonno, che certo non voleva negare agli altri lo stesso suo desiderio di tranquillità, ma a un certo punto si prese mezza giornata di libertà: uscì sul terrazzo, posizionò una sedia sopra il tavolo e vi si arrampicò, raggiungendo il tetto. Salì, saltando di tegola in tegola, fino al comignolo, da cui si sporse un po’ e guardò verso il basso la brulicante città. Ancora un passo e raggiunse il tronco di un pioppo, si accomodò su un ramo e sbirciò, non senza nostalgia, dall’altra parte del muro. C’era pace, di là: le case erano vuote e spaziose, le strade senza traffico, il cielo di un azzurro che non si ricordava e, in un vaso sul davanzale della sua vecchia casa, era spuntata una margherita.
Il nonno salì di qualche altro ramo, fino a raggiungere quasi la cima del pioppo, che un po’ si piegò per il peso, ma ecco che, come nel salto con l’asta, il nonno si fece lanciare da quell’albero nel cielo terso, per atterrare in mezzo alla piazza, deserta, dall’altra parte del muro.
Si guardò intorno, il nonno, per riconoscere la sua città di un tempo, poi sorrise, fece un respiro profondo e si accomodò su una panchina, senza dover aspettare il proprio turno per cinque minuti di sosta. Era felice di trovarsi solo nella città vuota, anche perché lo sapeva, che quella pace non sarebbe durata a lungo. Il pioppo di qua del muro era troppo invitante perché alla nonna, o ai loro sette figli, o ai bisnonni, alla prozia e alla cugina non venisse il desiderio di salirci e sbirciare. E presto le cose sarebbero tornate come prima e come prima di prima.
Anzi no: di là del muro, una volta tornati stretti stretti tra la folla, ci sarebbe stato in ognuno lo spazio per il ricordo del viaggio dall’altra parte, sulla quercia e sul pioppo, e di qua e di là del muro sarebbero stati lo stesso, medesimo posto. E il nonno posò il cappello e continuò a sorridere.
© Emmet Lewis Jr.
Mstislav Rostropovič, Slava per gli amici, fu senza dubbio il più grande violoncellista del suo tempo, che non è un tempo molto lontano, visto che è morto pochi anni fa. Nato in Azerbaigian, americano d’adozione per il suo dissenso con il regine sovietico di allora, non poteva mancare il nove novembre dell’Ottantanove, quando anche lui accorse davanti al muro che veniva fatto crollare. Anzi, di più, con il suo inseparabile strumento fece spazio tra le macerie, si accomodò su una seggiola e, su quello che era stato fino allora il confine tra Berlino Est e Berlino Ovest, improvvisò un concerto che ci impiegò davvero poco a fare il giro del mondo, con una città intera a fare da orchestra, da coro e da pubblico. La sua immagine grintosa è tra le icone del secolo scorso.
Quello improvvisato dal violoncello di Rostropovič fu solo il primo di una serie di eventi musicali che hanno strillato al mondo le voci da Berlino, sulle note di questa o quella canzone. È diventato un luogo simbolo anche per gli artisti delle sette note, il muro che c’era e ora non c’è più, come il Madison Square Garden o il teatro alla Scala, quasi che al ritmo di una batteria i cuori pulsassero di più… e un po’, forse, è davvero così.
Non c’è solo il muro, o quel che resta, nella Berlino di oggi, anzi. Ci si può trascorrere del bel tempo senza annoiarsi mai. Ma il muro è lì, o c’è la sua ombra e si può andare alla caccia del recente passato, in alcuni luoghi soprattutto. Una pagina molto dettagliata ti dice dove passava, il muro, dividendo l’Ovest dall’Est, dove si trovavano i varchi di confine, come il famoso Checkpoint Charlie, dove ci sono ancora dei resti, i centri di documentazione e le opere artistiche.
Peter Sís – Il muro – Rizzoli
Come si viveva dietro al muro, quando il muro c’era ancora? Come si trascorrevano le giornate dietro la Cortina di Ferro? Cosa si vedeva, guardando lontano, magari alzandosi in punta dei piedi? Quali sogni si facevano? E adesso cosa è cambiato? Peter Sís, nato in quella che allora si chiamava Cecoslovacchia, prova a raccontarlo un po’ a parole e molto a disegni, di qua e di là del muro. È un viaggio insolito nell’Europa dell’Est, fino a quell’indimenticabile nove novembre.
Si chiama Hans Conrad Schumann il protagonista di uno degli scatti fotografici che hanno fatto la storia del secolo scorso. Era un soldato dell’esercito della Germania Orientale, di guardia al confine che tagliava in due la città di Berlino.
Il giorno di ferragosto del 1961, nella cupa frenesia della costruzione del muro, si guardò a destra e sinistra per accertarsi che tutti i commilitoni fossero distratti o impegnati in qualche compito, quindi prese una breve rincorsa e saltò il filo spinato tra l’Est e l’Ovest, dove poche ore dopo sarebbero passato il muro.
Dall’altra parte, fortunato e dal riflesso veloce, il fotografo Peter Leibing fermò l’attimo, guadagnandosi il premio di foto dell’anno.
Essere il primo a saltare il muro fece di Schumann un piccolo eroe, in Occidente, ma la cosa non durò molto e la sua vita proseguì nell’anonimato, come un cittadino qualsiasi.
Uno dei più famosi cittadini di Berlino, non è di Berlino per nulla. Non è nemmeno tedesco, né dell’Est, né dell’Ovest, ma è berlinese più che mai. Durante una visita ufficiale, il 26 giugno 1963, il presidente degli Stati Uniti d’America John F. Kennedy tenne un discorso che ci impiegò davvero poco a fare il giro del mondo. Nel cuore di una città spaccata e divisa, dove la libertà era per molti un privilegio, esclamò con fierezza che tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, si devono considerare cittadini di Berlino quindi, in quanto uomo libero, lo era anche lui. Ich bin ein Berliner diventò uno slogan che risuonò nei cieli della guerra fredda.
Il signor Lochner, interprete, impegnato nel tradurre istantaneamente il discorso, per quelle parole non dovette dire alcunché, perché Kennedy le esclamò proprio in tedesco, conquistandosi in quel modo la simpatia di tutta la folla intorno. Lo stesso signor Lochner, però, aveva lavorato il doppio poco prima, scrivendo la frase su un foglietto, con la pronuncia corretta, per facilitare le cose al Presidente.
È stato tra i muri più tristemente famosi della storia, quello di Berlino, ma non fu l’unico e alcuni sono ancora lì, a dividere il di qua dal di là, o a ricordare una divisione. In Scozia c’è da quasi duemila anni il Vallo di Adriano; a Gerusalemme c’è il Muro del Pianto. Poi c’è il famosissimo album dei Pink Floyd, the Wall e c’è anche il muro del suono, che non si vede, ma si sente, eccome, se lo si supera.
E nella lontana Cina c’è la celeberrima Muraglia.
Lunga migliaia di chilometri, attraversa l’odierna Cina da Est a Ovest e c’è chi dice che sia l’unica opera umana visibile anche dallo spazio. Per quanto suggestiva, questa affermazione è però pura fantasia perché, per quanto sia lunghissima, la muraglia è larga solo una decina di metri, difficile da scorgere anche da un aereo a diecimila metri di quota, figurarsi da quattrocento chilometri… Altrimenti dovremmo poter vedere anche le autostrade e le piazze.
Peccato, però, o per fortuna, perché è comunque bello pensare a qualcosa dove l’opera umana non abbia lasciato troppo il segno e se questa è la Terra, ancorché vista di lontano, mi scappa quasi un sorriso di ottimismo.