No, questa volta non basterà la Grandeur a salvare la Francia. Spesa pubblica oltre il 50% del Pil, alto debito, bassa crescita, scarsa competitività, rigidità del mercato del lavoro: sembra l’Italia, ma in realtà sono i nostri cugini, afflitti dagli stessi mali italiani. E non è un caso che la domanda ricorrente fra think tank e centri di ricerca sia sempre la solita. È la Francia il grande malato d’Europa? La risposta è meno scontata di quello che si può immaginare.
Parigi ha evitato il contagio della fase più virulenta della crisi dell’eurozona, ma questo non significa che non debba adottare anche lei diverse riforme. Nei giorni neri dello spread, quelli in cui su Italia e Spagna aleggiava lo spettro dell’estromissione dai mercati obbligazionari, la Francia ha galleggiato, ha resistito. Anzi, insieme alla Germania aveva creato un asse che, volenti o nolenti, ha contribuito a traghettare l’intera euro area fuori dalle acque più tempestose. Finita l’emergenza, tuttavia, si deve tornare a parlare di cosa sia la Francia oggi e in che modo possa rinnovarsi.
Il debito pubblico è in aumento. Secondo le ultime stime della Commissione europea, il rapporto debito/Pil passerà dal 93,5% dell’anno in corso al 95,3% del prossimo e al 96% del 2015. Considerando che la media di questo rapporto fra il 1994 e il 2009 è stata del 61,6%, il trend è stato a senso unico. Come spiegato da Hsbc, secondo cui il debito pubblico francese continuerà a salire da qui al 2020, il governo transalpino avrebbe dovuto iniziare una politica di riduzione del proprio indebitamento a partire dall’introduzione dell’euro. Un aspetto che però è stato tralasciato dall’Eliseo. Il risultato è che ora si deve correre contro il tempo. Tanto il debito quanto il deficit, spiega ancora una volta la Commissione europea, continuano a rimanere su livelli elevati. In particolare, il disavanzo resterà oltre la soglia del 3% del Pil fin oltre il 2015: 4,1% nell’anno in corso, 3,8% nel 2014, 3,7% nel 2015. Il tutto con buona pace del Fiscal compact. «La strada intrapresa è quella giusta, ma abbiamo bisogno di diverso tempo per apportare le riforme di cui la Francia ha bisogno», disse un anno fa il ministro francese delle Finanze, Pierre Moscovici.
Oltre al debito, anche la spesa pubblica è in aumento. Dall’introduzione dell’euro a oggi, il livello è sempre stato oltre il 50% del Pil, mentre dal 2009 a oggi sempre più del 55 per cento. Nel 2007 fu il Tesoro francese a lanciare l’allarme più significativo. «Lo Stato francese costa troppo. E questo costo è in aumento. La priorità è ridurre ogni capitolo di spesa», disse il Direttore generale dell’Agence France Trésor, Benoît Cœuré, ora alla Banca centrale europea (Bce). In questa analisi si evidenziava che dal 1959 a oggi non c’è mai stato un anno nel quale la spesa pubblica sia calata rispetto all’anno precedente. Questo è successo, secondo i dati di Eurostat, solo nel 2011. Ma il trend ha presto ripreso la via che lo contraddistingueva dal 1959.
Il motivo dell’enorme mole di denaro pubblico erogato prende il nome di welfare. È infatti la spesa sociale, fra pensioni, sanità e ammortizzatori sociali di varia natura, a essere il capitolo più difficile da trattare per ogni inquilino dell’Eliseo. Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), quasi il 35% del Pil francese viene speso per la previdenza sociale. In altre parole, la quota più elevata dei Paesi Ocse. Molte voci, soprattutto di economisti, chiedono che ci sia una revisione di tali erogazioni. Il presidente francese François Hollande ha più volte ripetuto che i vecchi privilegi devono essere dimenticati. Di iniziative concrete, per ora, nemmeno l’ombra. Ed è anche per questo che Standard & Poor’s ha deciso di tagliare il rating sovrano della Francia, togliendogli la tripla A. Un’onta per i francesi, un finale già scritto per i mercati.
Come se non bastasse, dal punto di vista meramente finanziario, Parigi ha scelto di adottare diversi azzardi. O meglio, come le ha chiamate Threadneedle Investments, scappatoie. Una di queste è l’accesso al mercato Step (Short-term European paper), tramite cui la Banca di Francia può ottenere liquidità per gli istituti di credito del proprio sistema quasi senza dover passare dalla Banca centrale europea. È anche per questo, ricorda la casa d’affari londinese, che le banche transalpine hanno (per adesso) assai meno problemi che le compagini italiane e spagnole. Sebbene il credit crunch sia presente, la Francia riesce ancora a irrorare le sue piccole e medie imprese in modo significativo e a un costo ridotto rispetto a Italia e Spagna. «Non ci sono particolari esigenze finanziarie straordinarie, ma questo non significa che non debba essere portato avanti il rinnovamento dell’intero sistema, riducendo leverage e costi fissi, come quelli delle filiali», ha fatto notare Ernst & Young in un report sulle banche dell’eurozona dell’anno passato. Un altro nodo da sciogliere per Hollande e Moscovici.
Le riforme di cui ha bisogno la Francia, almeno nel medio termine, sono due. Riforma del mercato del lavoro e riforma del welfare. Tanto il primo è ingessato quanto il secondo è burocratizzato e insostenibile. Eppure, sebbene sia iniziata la discussione, la via per l’adozione di nuovi modelli è ancora in alto mare. In più di un’occasione la Commissione europea ha messo in allarme l’Eliseo, che però controbatte che per ora le urgenze sono altre. La riduzione del deficit, per esempio. O la razionalizzazione della spesa pubblica in base ai vari capitoli di spesa degli enti centrali. Tuttavia, fra non molto Parigi dovrà affrontare il mostro che ha cresciuto in seno dal 1959 a oggi. Farlo con una calma significativa sui mercati finanziari è però ben diverso che farla con la pressione degli investitori sul collo.
La Francia non è il grande malato d’Europa. O meglio, non ancora. Il sistema finanziario è robusto, ma l’economia reale langue. Colpa delle lacune sul mercato del lavoro, che riducono la competitività e impediscono alle imprese transalpine di uscire dalla recessione con vigore. Ma colpa anche di uno Stato elefantiaco, che prima o poi dovrà rivedere le proprie fondamenta. Se a questo, come ricordava nello scorso aprile il think tank Carnegie Europe, si aggiunge un presidente oggettivamente debole, il quadro è completo. E una semplice influenza, seppur grave, rischia di tramutarsi in una patologia ben più complessa e difficile da curare.