“La giustizia mi ha rinchiuso, senza parlare con me”

Giustizia & Classici

Riforma della giustizia e problema del sovraffollamento carcerario, sono due temi ricorrenti nel dibattito politico italiano, così come ricorrente è la loro mancata soluzione, spesso per problemi di opportunità politica. O anche per la loro non eccessiva popolarità. Eppure, chiunque abbia avuto a che fare con una causa, anche amministrativa, ha sperimentato tutte le lungaggini, l’alienazione e lo straniamento che porta con sè l’aver a che fare con un apparato pubblico così pesante e inefficiente, che porta a investire anni e anni della propria esistenza per ottenere qualcosa. Ancora peggio si trova chi, per aver commesso un reato o per un errore giudiziario, si trova ad affrontare un periodo di detenzione, anche breve. Entrambi questi problemi sono stati trattati da Albert Camus in una delle sue opere più famose, Lo straniero, scritto nel 1941-42 ma ambientato fuori dal tempo, senza riferimenti all’attualità (che in quel periodo era il regime di Vichy e la guerra mondiale).
Il protagonista, Meursault, un impiegato francese che vive ad Algeri che vive nell’indifferenza e nell’apatia. All’inizio del libro sua madre muore, ma lui sembra non soffrirne più di tanto. Beve e fuma in prossimità della sua bara. Dopo qualche giorno, durante un fine settimana, Meursault uccide un arabo sulla spiaggia con quattro colpi, durante un diverbio. La ragione? “Il caldo”.

Nella seconda parte del libro, comincia l’odissea giudiziaria, i cui inizi vengono descritti dal protagonista con distacco:

Subito dopo il mio arresto, sono stato interrogato parecchie volte. Ma si trattava di interrogatori di identità che non sono durati molto. La prima volta, al Commissariato, sembrava che nessuno si interessasse alla mia faccenda. Otto giorni dopo, invece, il giudice istruttore mi ha guardato con curiosità. Ma per cominciare mi ha chiesto soltanto il nome e indirizzo, la professione, la data e il luogo di nascita. Poi ha voluto sapere se mi ero scelto un avvocato. Ho detto di no e gli ho chiesto se era assolutamente necessario di averne uno. “Perché?” mi ha detto. Gli ho risposto che trovavo la mia faccenda molto semplice. Ha sorriso dicendo: “Anche questa è un’opinione. In ogni modo la legge è fatta così. Se lei non si sceglierà un avvocato, ne designeremo noi uno d’ufficio”. 
Ho trovato che era molto comodo che la giustizia si occupasse di questi particolari. […]

Poco tempo dopo sono stato condotto di nuovo davanti al giudice istruttore. Erano le due del pomeriggio e questa volta il suo ufficio era tutto pieno di luce che filtrava dalle tende di velo. Faceva molto caldo. Mi ha fatto sedere e con molta cortesia mi ha detto che l’avvocato “a causa di un contrattempo” non era potuto venire. Ma io avevo il diritto di non rispondere alle sue domande e aspettare l’assistenza dell’avvocato. Gli ho detto che potevo rispondere da me. Ha toccato un bottone e un giovane cancelliere è venuto a sedersi quasi contro la mia schiena.

Ci siamo tutti e due aggiustati nelle nostre poltrone. L’interrogatorio è iniziato. […]

In seguito ho rivisto spesso il giudice istruttore. Solo che, tutte le volte, l’avvocato mi accompagnava. Si limitavano a farmi precisare certi punti delle mie precedenti dichiarazioni, oppure il giudice discuteva con l’avvocato i capi d’accusa. Ma in realtà in quei momenti non si occupavano affatto di me. A poco a poco, comunque, il tono degli interrogatori è mutato. Pareva che il giudice non avesse più interesse per me e avesse in un certo qual modo archiviato il mio caso.»

Camus poi passa a descrivere la detenzione di Meursault. E lì il senso di alienazione aumenta a tal punto da rendere i ricordi della libertà fastidiosi a Meursault:

Il giorno dell’arresto sono stato dapprima chiuso in una stanza dove c’erano già parecchi detenuti, quasi tutti arabi. Hanno riso al vedermi; poi mi hanno chiesto che cosa avevo fatto. Ho detto che avevo ucciso un arabo e sono rimasti silenziosi. Ma poco dopo è caduta la sera. Mi hanno spiegato come sistemare la stuoia dove avrei dovuto dormire. Arrotolando una delle estremità si poteva fare un cuscino. Durante tutta la notte mi sono sentito correre le cimici sul viso. Qualche giorno dopo mi hanno isolato in una cella dove dormivo su una panca di legno. Avevo un vaso per i miei bisogni. La prigione era nel punto più alto della città e dalla mia finestrina potevo vedere il mare. Un giorno che ero aggrappato alle sbarre, la faccia tesa verso la luce, è entrato un carceriere e mi ha detto che c’era una visita. […]

Al principio della mia detenzione, comunque la cosa più dura è stata che avevo pensieri da uomo libero. Per esempio mi veniva voglia di essere su una spiaggia e scendere verso il mare. Quando pensavo al rumore delle prime onde sotto la pianta dei piedi, al mio corpo che entrava nell’acqua e al sollievo che ne provavo, di colpo sentivo quanto erano stretti i muri della mia prigione. Ma questo durò qualche mese soltanto. Aspettavo la passeggiata quotidiana che facevo nel cortile della prigione, o la visita dell’avvocato. Mi arrangiavo bene col tempo che mi restava. […]
Del resto era un’idea della mamma, e lei lo ripeteva sempre, che si finisce per abituarsi a tutto. […]

Quando un giorno il guardiano mi ha detto che ero lì da cinque mesi, gli ho creduto, ma non l’ho capito. Per me era sempre lo stesso giorno che scorreva nella mia cella, e io percorrevo sempre la stessa via.

Infine, il processo, dove l’alienazione e l’indifferenza dell’imputato Meursault raggiungono l’apice e lo straniamento per le procedure standardizzate e per il rito processuale esplodono.

Persino da un banco di imputato è sempre interessante sentir parlare di sè. Durante le arringhe del pm e del mio difensore si è effettivamente parlato molto di me, e forse più di me che del mio delitto. E in definitiva erano tanto differenti fra loro, le arringhe dell’uno e dell’altro? L’avvocato alzava le braccia e ammetteva la colpevolezza, ma con attenuanti. Il pm tendeva le mani e denunciava la colpevolezza, ma senza attenuanti. C’era tuttavia una cosa che mi metteva a disagio. A volte, nonostante le mie preoccupazioni, ero tentato di intervenire, e allora l’avvocato mi diceva: “Stia zitto, che è meglio per lei”». In un certo qual modo avevano l’aria di trattare la cosa al di fuori di me. Tutto si svolgeva senza il mio intervento. Si decideva la mia sorte senza chiedere il mio parere. Di tanto in tanto avevo voglia di interrompere tutti quanti e dire: “Ma insomma, chi è l’accusato qui? È una cosa importante, essere l’accusato! E io ho qualcosa da dire!” Ma dopo averci riflettuto un po’, non avevo da dire nulla”.

Chissà se invece Camus, che ha compiuto 100 anni da poco, avrebbe avuto qualcosa da dire su una giustizia molto simile a quella da lui descritta nel suo romanzo, più di 70 anni dopo. Sono tanti i Meursault, anche in Italia, che si sentono alienati dalla loro personale vicenda giudiziaria. Anche quando non sono colpevoli di omicidio. Anche quando la loro vicenda si limita a un procedimento amministrativo, ad esempio per una disputa di condominio. Anche quando, come quasi sempre accade, la colpevolezza è tutt’altro che conclamata. E ci si sente trascinati in un procedimento lunghissimo e molte volte altrettanto straniante come Lo straniero.

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