Potrà rinascere Milano attraverso l’Expo 2015? La domanda appare un po’ domestica trattandosi di una esposizione universale. Ma se Milano, dopo un secolo e mezzo, resta ancora il luogo storico della modernizzazione italiana, allora la questione si fa molto più vasta e intrigante. Al di là dei grandi lavori, delle infrastrutture, dei quattrini che possono piovere dall’alto, quel che conta davvero è se l’evento diventa una vera fiera dell’innovazione oppure una fiera delle vanità.
Sfamare il mondo significa cambiarlo (non ci sarebbe il boom dell’Asia o dell’America latina senza la rivoluzione verde) e alle immense trasformazioni degli ultimi decenni hanno contribuito molteplici fattori: 1) la tecnologia, a cominciare dall’ingegneria genetica; 2) la finanza, perché un immenso flusso di capitali s’è spostato dai Paesi ricchi a quelli in via di sviluppo; 3) l’imprenditoria, perché ci sono voluti e ci vogliono ancora imprenditori capitalisti, grandi e piccoli, per trasformare lande desolate in terre fertili, agricoltori, ma anche industriali che alimentano con la loro domanda la nuova offerta (un esempio viene dal caffè e da come ha cambiato i territori aridi del Brasile); 4) innovazioni organizzative su scala globale (i colossi delle commodities) e su scala locale: perché la trasformazione dell’economia del villaggio in seguito a microinterventi non viene dai libri di Serge Latouche, ma è una politica perseguita dalla Banca Mondiale in Africa e in Asia, soprattutto. Insomma, tutta una gamma ampia e sempre mutevole di interventi che fanno la politica dello sviluppo.
Se tutto questo entra nei padiglioni, in quel “giardino botanico globale,” come lo ha chiamato Stefano Boeri che ha concepito la struttura, ebbene Expo 2015 sarà un appuntamento importante, anche sul piano culturale. E l’Italia avrà modo di partecipare al grande gioco nel quale è tornata da una porta laterale perché ha perduto, per una serie di fattori complessi, molti dei suoi campioni: basti pensare al naufragio dei tanti sogni agro-alimentari, non ultimo quello della Ferruzzi e di Raul Gardini. Un colosso dello zucchero, della soia, della benzina “verde”, è stato spazzato via e da allora l’Italia ha condotto una partita più dimessa, in una serie minore. Anche se conta su protagonisti eccellenti, l’agro-alimentare non è un sistema in grado di competere con i colossi multinazionali, anzi viene ingoiato boccone dopo boccone da questi colossi ai quali la crisi ha aguzzato l’appetito; lo dimostrano le recenti e molteplici mire su Ferrero.
L’Expo non è la fiera agricola o del cibo, vuole esporre concetti e realtà ben più ampi e complessi. Se parte, però, con querelle ideologiche di retroguardia, allora promette davvero male. L’ostracismo agli Ogm, decretato per ragioni culturali e insieme interessi concreti, da personaggi mediatici come Oscar Farinetti, è un pessimo segnale. La polemica con Umberto Veronesi (sostenitore degli Ogm) sta lì a dimostrarlo.
Tener fuori la filiera scientifico-tecnologica che ruota attorno agli organismi generaticamente modificati, è tener fuori gli Stati Uniti. Se non partecipa il paese che detiene ancora la leadership tecnologica ed economica mondiale, l’Expo rischia un clamoroso flop. Una Italia dell’orticello, una Milano codina, un’Europa egoista la quale ammanta di progressismo politiche protezioniste destinate a tagliare fuori interi continenti, tutto ciò non ha nulla a che fare con il mondo nuovo. La difesa del culatello o del roquefort sono legittime e fanno senza dubbio gli interessi di prodotti di alta gamma, nicchie di eccellenza le chiameremmo oggi. Ma l’ideologia del chilometro zero o del “cibo Frankenstein” (inteso tutto quello che ha subito una manipolazione genetica) porta dritti dritti a una concezione protezionistica alla “eccezione alimentare” che fa coppia con “l’eccezione culturale” e, di questo passo, all’auto-emarginazione.
I no-Ogm o i sì-Ogm, incistati come sono nelle proprie convinzioni, non cambieranno certo idea di qui a Expo 2015. Tuttavia non è questo il punto. Il problema è che già si comincia con il mettere al bando chi non la pensa allo stesso modo. Il presidente della Confagricoltura Mario Guidi ha lanciato un avvertimento, temendo che il Padiglione Italia diventi una Padiglione Eataly: «Il sistema agricolo italiano non può che essere rappresentato nella sua interezza all’Expo. Siamo distanti dalla visione conservatrice che invece riporta il fenomeno agricolo ad una dimensione di localismo, di rigida selezione delle innovazioni e infine di contrasto alla moderna ricomposizione delle scelte produttive e tecnologiche». Anche lui esprime i propri interessi, è chiaro. Tuttavia ha ragione nel chiedere che tutte le esperienze vengano rappresentate.
Il mondo bio reagisce indignato lanciandosi contro il solito strapotere delle multinazionali a difesa dei contadini italiani, «un bene da difendere non da offendere» (forse più che beni sono dei soggetti, ma tant’è). Il loro bersaglio principale è Gilberto Corbellini al quale s’aggiunge adesso “Veronesi&Co”. Le posizioni oggi come oggi sono talmente contrapposte da non consentire una mediazione. Davvero odiosa, però, è la richiesta di escludere, il ricorso all’intolleranza e alla epurazione. Basta guardare certi siti e leggere la loro propaganda per capire come stanno conducendo la battaglia in difesa di idee legittime e concretissimi guadagni.
Che Italia si presenta dunque all’Expo? Un paese lacerato da conflitti irrimediabili, chiuso in difesa dei suoi campicelli all’ombra dei campanili, vecchio, satollo, sostanzialmente appagato sotto la patina dell’eterna insoddisfazione. Un’Italia che non ha voglia di rischiare, che chiama nuovo il vecchio perché ha orrore del cambiamento al quale è costretta dall’esterno sempre quando arriva sull’orlo del precipizio, che vive di rendita perché aborre il profitto. Lo si vede anche nell’eterna diatriba sul debito pubblico: si è formato perché ciascuno ha pensato solo al proprio particolare, ma, essendo pubblico, ognuno pensa che a pagare debba essere il proprio vicino.
Di questa Italia vuole essere lo specchio Milano? La risposta chiama in causa le responsabilità della classe dirigente. È bene che il sindaco Giuliano Pisapia, il governatore lombardo Roberto Maroni e la presidente Diana Bracco, prendano di petto la questione che rimanda al tema più vasto sul futuro di questo Paese. Una grande isola pedonale, sole, mare, musei e mandolini, un’agenzia turistica di camerieri e ciceroni per ricchi tedeschi, russi o cinesi: è questo che vogliamo? Oppure possiamo ancora svolgere un ruolo attivo nel trasformare il mondo trasformando noi stessi?