Il Festival del Giornalismo «ricomincia dal futuro»

Verso la nuova edizione

«Il risultato fino a questo momento è stato incredibile. Comunque vada a finire, il festival si farà dal 30 aprile al 4 maggio. Sia che dovessimo raccogliere 100mila euro, sia che dovessimo fermarci qui». Il segreto del successo di un grande progetto, spesso e volentieri, è l’entusiasmo di chi lo realizza. E l’entusiasmo non è certo una caratteristica che manca ad Arianna Ciccone, fondatrice – insieme a Christopher Potter – del Festival del Giornalismo di Perugia.

Pochi mesi fa, quella di vedere un’edizione 2014 del grande evento internazionale, capace di attirare in pochi anni giornalisti e direttori di fama mondiale e decine di migliaia di spettatori, sembrava essere sul punto di sfumare: l’atteggiamento delle istituzioni, regione e comune in particolare, non è piaciuto ai due promotori, che il 17 ottobre scorso annunciavano attraverso il sito ufficiale la decisione presa. «Stop at the top», ci fermiamo all’apice del successo. Questione di fondi giudicati troppo modesti per la buona riuscita del festival, ma anche di una difficoltà di dialogo che, alla lunga, aveva finito per smorzare l’entusiasmo di Arianna e Chris, che nel Festival hanno investito le loro energie per anni.

Tutto è cambiato in poche ore. Tra le centinaia di messaggi di solidarietà arrivate dai social network, c’è chi ha fatto il passo successivo: proporre il coinvolgimento economico diretto dei giornalisti, dei giornali e del pubblico, attraverso una campagna di crowdfunding aperta a chiunque (ecco lo Storify che racconta com’è andata). Lanciata alla fine di ottobre, la campagna ha raccolto al momento più di 35mila euro

Donazioni sono arrivate copiose da ogni parte del mondo, «dall’America alla Russia», alcune anche molto sostanziose: i giornalisti Bill Emmott, Steffen Konrath, Vittorio Zambardino e Vittorio Zucconi, così come la deputata del Partito Democratico Anna Ascani, hanno donato più di 1000 euro al Festival. Con loro, testate (CheFuturo!, Europa, Fanpage, Messaggero Veneto, Repubblica), case editrici e aziende, che grazie alle loro donazioni rappresentano il gruppo dei «gold donor» dell’evento, portando da sole più di 15mila euro.

Qual è il tuo bilancio fino a questo punto?
35mila euro e quasi 500 donatori sono davvero tanti. Dobbiamo considerare che si tratta di un crowdfunding peculiare, dove non viene offerto nulla di materiale in cambio: la “ricompensa” è il festival stesso; ricordare che il giornalismo, in Italia, non gode di una buona immagine pubblica; infine, bisogna tenere a mente che qui questo meccanismo di raccolta fondi non è ancora diffuso come negli USA, manca ancora la mentalità. Eppure, a quanto sembra, qualcosa sta cambiando. 

Per il momento, mi sembra che la campagna si stia diffondendo da sola, senza spingere troppo sull’acceleratore. Un ottimo segnale.
Noi abbiamo volutamente adottato un basso profilo: non facciamo molta promozione, cerchiamo di essere discreti, non vogliamo sovraesporre il marchio del Festival. È un momento di forte crisi, non si può non tenerne conto. 

Pensi di riuscire a raggiungere la quota prestabilita, centomila euro?
Io sono convinta di farcela. Però, anche se non dovesse accadere, il festival lo facciamo lo stesso. Abbiamo rinunciato a un contributo pubblico e quindi è anche una questione di principio. Ho ricevuto per Natale un regalo particolare, il dvd del film MoneyBall, e un messaggio speciale: “di come si vince anche senza soldi, giocando in un modo nuovo”. Ci porterà fortuna. 

Il format del Festival 2014 cambierà in base ai soldi che raccoglierete?
Assolutamente no. Vale la pena rischiare: il numero dei giorni rimarrà sempre quello, quest’anno forse ci sarà anche un’anteprima speciale. Anzi, il nostro obiettivo è quello di aumentare il numero di giornalisti internazionali. In molti si stanno autofinanziando, offrendo di pagare il viaggio e l’alloggio a proprie spese, pur di aiutarci a mettere in piedi il festival. È un crowdfunding che non si vede, davvero molto bello. Un’esperienza incredibile. 

Parliamo di una questione che tocca da vicino i giornalisti e gli editori. La sostenibilità economica dei giornali appare sempre più un miraggio. Si parla di paywall, di native advertising, di formule morbide di sottoscrizione. Vedi un modello che funziona più degli altri?
Questa è la domanda da ottocento miliardi di dollari. Al Festival cominciammo a indagare sui modelli alternativi di sostenibilità del giornalismo già tre o quattro anni fa, quando invitammo gli ideatori di Spot Us (una piattaforma di crowdfunding di reporter, ndr). Al tempo in tanti, me compresa, pensavamo potesse essere una rivoluzione. Così purtroppo non è stato. La verità è che non ci sta capendo niente nessuno. Come ha detto Jeff Bezos quando ha acquistato il Washington Post, bisogna solo continuare a sperimentare. Per farlo, però, è necessario avere un budget che ti permetta di sperimentare per dieci anni senza esigenze di cassa. Non credo che esisterà un solo modello di sostenibilità, ma che se ne affermeranno più di uno. E comunque  il modello giornale cui siamo abituati è disintegrato, a mio avviso anche a livello digitale.

I banner sono il passato?
Non funzionano, ne abbiamo avuto la prova in questi anni. Adesso si sperimentano gli articoli sponsorizzati, il native advertising, la cui chiave di successo secondo me risiederà nella qualità del contenuto. Se il contenuto è qualcosa che mi serve, che arricchisce la mia vita e che mi dà strumenti per migliorare il mio quotidiano, allora può funzionare molto meglio di una pagina pubblicitaria. Le pubblicità invasive, come i video che si ingrandiscono nelle pagine web, sono orribili. Non credo che i lettori possano amare inserzioni del genere.

Intanto, Facebook ha annunciato un taglio della visibilità delle pagine. Per molti editori è stato un brutto colpo, c’è chi ha protestato e annunciato azioni legali.
Negli ultimi mesi, Facebook aveva fatto impennare sensibilmente la visibilità delle pagine, per mostrare al meglio le potenzialità della piattaforma. Ora che ha deciso di dire basta, mi sembra abbastanza ovvio che dietro ci fosse una precisa strategia. C’era da aspettarselo. Del resto Facebook non è un’opera di beneficenza: è un business. Lamentarsi ora serve a poco. Quello che serve è riuscire a stare dentro questi ambienti (le persone sono lì ed è lì che bisogna stare) al meglio possibile. Ci vuole impegno e dirò una cosa assurda per qualcuno: ci vuole passione nell’usare i social network anche per una testata con un brand forte. 

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