Perché leggere ancora Luciano Bianciardi?

Il Biancio ne fa 91

Oggi Luciano Bianciardi, se non fosse stato Luciano Bianciardi, avrebbe compiuto 91 anni. Dico questo perché uno come lui, così appassionato, così affamato di vita, a 91 anni non ci poteva proprio arrivare.

Bianciardi era nato in provincia, a Grosseto, e da lì era salito a Milano, come molti, a fare il lavoratore culturale su invito di Gian Giacomo Feltrinelli. E Milano lo mise alla prova, portandolo a scrivere uno dei più grandi capolavori della letteratura italiana del Novecento, La vita agra, ma anche consumandolo, poco a poco.

Bianciardi a Milano si trovò faccia a faccia con la parte peggiore della modernità industriale italiana. Arrivato per lavorare alla costruzione di una grande impresa culturale, la Feltrinelli, ne venne a poco a poco travolto, finendo nel giro di nemmeno vent’anni per isolarsi e suicidarsi a bottiglie di grappa gialla, in una lenta e straziante agonia raccontata molto bene da Pino Corrias nel suo stupendo Vita agra di un anarchico a Milano.

Oggi scrivo di lui non soltanto perché è il suo compleanno. Ne scrivo perché Luciano Bianciardi ci somiglia pazzescamente, per almeno due motivi: il primo è che fu testimone di un mutamento antropologico, quello dell’Italia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, del boom economico e del consumo di massa, che è forse paragonabile, per portata e influenza sulla società, a quello che abbiamo vissuto noi, in questi ultimi anni di Berlusconismo.

Ma è il secondo motivo a rendercelo ancora più vicino, come un fratello maggiore, ed è di natura più sociologica: Bianciardi era un precario ante litteram, un precario prima dei precari, costretto a lavorare – nel suo caso a tradurre – giorno e notte, dormendo poco, mangiando male, bevendo molto e facendo l’amore. Una vita a ben veder non molto diversa da quella di migliaia di giovani trentenni italiani. 

Somiglia a noi, a quella generazione nata tra la fine degli anni Settanta e la seconda metà degli anni Ottanta, che ora ha più o meno trent’anni e che vive strozzata da un cappio simile, ma forse ancor più stretto perché massificato, a quello che strozzava Bianciardi. Leggendo i suoi scritti ci ritroviamo, come davanti allo specchio la mattina, a veder riflesse le nostre stesse inquietudini, quelle che ci inseguono senza sosta da anni e con cui abbiamo imparato ormai a convivere.

Dovremmo leggere Bianciardi perché lui ha aperto una strada e l’ha percorsa fino a uno dei suoi più radicali e drammatici sbocchi: l’annichilimento, la resa e l’autodistruzione – ed è inutile negarlo, è uno dei possibili sbocchi anche dei nostri percorsi. Ma in quel suo tragitto ha osservato, preso appunti e, divinamente, ne ha scritto, arrivando anche a individuare la chiave di volta, quel mattoncino, l’unico, che bisogna togliere per far cadere tutto, per cambiare il mondo. 

Quel mattoncino lui l’ha visto, e se anche non ha avuto la lucidità e la solidità di riuscire a strapparlo dalla sua sede, almeno ci ha lasciato scritto le istruzioni per riconoscerlo.

E molti di voi si stupiranno quando lo leggeranno – perché lo leggerete, ne sono sicuro – che quel mattoncino non è affatto il Torracchione, ovvero il palazzo del potere che il suo alterego romanzesco voleva far esplodere per vendicare i minatori. Quel mattoncino è allo stesso tempo «ben più lontano» e fin troppo vicino: è in interiore homine, dentro di noi, semplicemente.

Proprio così iniziano tre tra le più belle pagine della letteratura italiana di sempre, quelle della profezia della Vita agra. 

No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine.

Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha. 

La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, che saranno aboliti tutti, dai più complicati ai più semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci.

Tutto ciò che ruota, articola, scivola, incastra, ingrana e sollecita sarà abbandonato. Poi eviteremo tutte le materie sintetiche, iniziando dalla cosiddetta plastica. Quindi sarà la volta dei metalli, dalle leghe pesanti e leggere giù giù fino al semplice ferro. 

Né scamperà la carta. Eliminati carta e metallo non sarà più possibile la moneta, e con essa l’economia di mercato, per fare posto a un’economia di tipo nuovo, non del baratto, ma del donativo. Ciascuno sarà ben lieto di donare al suo prossimo tutto quello che ha e cioè – considerando le cose dal punto di vista degli economisti d’oggi – quasi niente. Ma ricchissimo sarà il dono quotidiano di tutti a tutti nella valutazione nostra, nuova.

Saranno scomparse le attività quartarie, e anzitutto i grafici, i P.R.M., e i demodossologi. Spariranno quindi le attività terziarie, e poi anche le secondarie.

Le attività del tipo primario – coltivazione della terra – andranno man mano restringendosi, perché camperemo principalmente di frutti spontanei.

È ovvio che a questo si arriverà per gradi, e non senza arresti o inciampi.

Agli inizi formeremo appena delle piccole comunità, isolette sparute in mezzo allo sciaguattare dell’attivismo, e gli attivisti ci guarderanno con sufficienza e dispregio.

Per parte nostra, metteremo alla porta con ferma dolcezza i rappresentanti di commercio, gli assicuratori e i preti.

Avremo eletto per nostra dimora le zone meno abitate, cioè quelle che hanno clima migliore.

A poco a poco vedremo la nostra isola crescere, collegarsi con altre isole fino a formare una fascia di territorio ininterrotto.

E un giorno saranno gli altri, gli attivisti, a ridursi in isola; poche decine di longobardi febbrili aggrappati a rotelle e volani, con gli occhi iniettati di sangue. Forse non riusciremo mai a vincerli alla nostra causa, e resteranno lì a correre in circolo, a firmarsi l’un con l’altro cambiali, a esigerne il pagamento. Ridotti così in pochi, man mano che i meno saldi muoiono d’infarto, formeranno un cerchio sempre più angusto e rapido, fino a scomparire da sé.

E noi li staremo a guardare dall’esterno, sorridendo.

Il lavoro si sarà per noi ridotto quasi a zero, vivendo dei frutti spontanei della terra e di pochissima coltivazione.

Saremo vegetariani, e ciascuno avrà gli arredi essenziali al vivere comodo, e cioè un letto.

Il problema del tempo libero non si porrà più, essendo la vita intera una continua distesa di tempo libero.

Scomparsi i metalli, gli uomini avranno barbe fluenti.

Scomparse le diete dimagranti e i pregiudizi pseudoestetici, le donne saranno finalmente grasse.

Scomparsa la carta, non avremo né moneta né giornali né libri.

Perciò, trasmettendosi le notizie di bocca in bocca, noi non sentiremo né le false né le superflue.

Senza libri, la letteratura dovrà tramandarsi per tradizione orale, e la tradizione orale non potrà non scegliere i soli capolavori.

Vedremo automobili ferme per via, senza più carburante, e le abbandoneremo ai giochi dei bambini, ai quali però nessuno dovrà dire che cosa erano, a che cosa servivano quelle cose un tempo.

Ovunque cresceranno vigorose erbe e piante, in breve l’asfalto si tingerà tutto di verde, con immediato miglioramento del clima.

Anche le zone umide e nebbiose diventeranno abitabili.

Gli animali domestici passeggeranno liberi e robusti in mezzo a noi, galline, dromedari, pipistrelli, pecore eccetera.

Cessato ogni rumore metalmeccanico, suonerà dovunque la voce dell’uomo e della bestia.

Liberi da ogni altra cura, noi ci dedicheremo al bel canto, ai lunghi e pacati conversari, alle rappresentazioni mimiche e comiche improvvisate. Ciascuno diventerà maestro in queste arti.

Non essendovi mezzi meccanici di locomozione, ci sposteremo a dorso d’asino o a piedi, e questo favorirà l’irrobustimento dei corpi, con immediati vantaggi fisici ed estetici.

Grandi, barbuti, eloquenti, gli uomini coltiveranno nobili passioni, quali l’amicizia e l’amore.

Non esistendo la famiglia, i rapporti sessuali saranno liberi, indiscriminati, ininterrotti e frequenti, anzi continui.

Le donne spesso fecondate ingrasseranno ancora, e i bambini da loro nati saranno figli di tutti e profumeranno la terra.

Noi li vedremo venire su forti e chiari, e li educheremo alle arti canore e vocali, alla conversazione, all’amicizia, all’amore e all’intercorso sessuale, non appena siano in età a ciò idonea. Andateci piano, ragazzi, che tanto ce n’è per tutti.

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