Dopo il rogo alla fabbrica cinese nel quartiere Macrolotto, a Prato è stato appiccato un altro fuoco: il falò dell’ipocrisia. Perché la cartolina che ci è stata mandata in questi giorni dipinge una città divisa fra i cinesi, carnefici, e gli imprenditori italiani, vittime, oltre che della crisi ormai strutturale del settore tessile, dell’illegalità diffusa nella comunità cinese. Dichiarazioni, appelli, fiaccolate, promesse, lettere di intenti per ristabilire la legalità, ma nel fiume di parole riversate non si vede un solo salmone, che risalga la corrente in senso contrario. E faccia autocritica.
Eppure tutti i capannoni cinesi sono stati affittati e venduti da imprenditori italiani che, chiuse le aziende, hanno vissuto di rendita grazie ai flussi di denaro che da vent’anni scorrono nei canali sotterranei della ex capitale toscana del distretto tessile. Certo, ora le associazioni di categoria annunciano di voler fondare la “fabbrica della legalità”, chiedono più ispezioni nei capannoni e una verifica di tutta la filiera cinese, che porta dal Macrolotto fino ad alcune grandi griffe della moda. Sacrosanto.
Ma nel frattempo, dopo il rogo, a Prato, c’è un grande movimento di proprietari di immobili, imprenditori o ex imprenditori pratesi, che fanno la fila davanti agli studi legali, per mettersi al riparo da guai giudiziari. Angosciati, dopo che il proprietario italiano del capannone in cui è avvenuto il rogo, è finito nel registro degli indagati. «Perché a Prato lo sanno anche i bambini che i capannoni sono stati affittati per poche centinaia di euro, mentre i cinesi pagano ai proprietari italiani migliaia di euro in nero», osserva Cristian Melega, amministratore unico di una società di recupero crediti a domicilio, Agc, che per mestiere ha fatto diverse visite ispettive anche nei capannoni cinesi. «Qualche giorno fa ho proposto alle istituzioni e alle associazioni di categoria di istituire una task force per fare ispezioni nei capannoni cinesi, tutti venduti o affittati da italiani», spiega a Linkiesta. «Risultato? Per ora mi ha risposto solo la Confartigianato. La verità è questa: con la crisi del settore tessile, Prato era una città morta ed è rimasta in piedi solo grazie ai cinesi, arrivati con le loro valige piene zeppe di cash, soldi maledetti e subito, a cui nessun pratese ha voluto e vuole rinunciare».
Sul quotidiano digitale notiziediprato.it, si trova traccia di una denuncia dei capannoni-lager, che risale addirittura al 1998. La fece un consigliere comunale di Forza Italia, Antonio Rancati, al quale il sindaco, allora era Fabrizio Mattei, rispose con queste parole: «Si descrive una situazione che non so a quale città appartenga…». Ora che il rogo ha illuminato le coscienze, si fa per dire, il sindaco in carica, Roberto Cenni, ha scritto un’accorata lettera alle associazioni imprenditoriali di categoria, per chiedere di adottare ogni misura e ripristinare la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Ma a Prato tutti sanno che Cenni, ora gran moralizzatore, aveva un’azienda, poi fallita e venduta ai russi nel 2011, la Sasch abbigliamento, (il sindaco è stato anche indagato per bancarotta fraudolenta) che aveva 250 negozi, anche in franchising, e una società a Shanghai, la Txy, dove gli operai nel 2010 hanno scioperato perché non prendevano lo stipendio da mesi. Così come tutti sanno, che da imprenditore, come molti altri, dava commesse esterne ai cinesi, contoterzisti, per risparmiare sul costo del lavoro, proprio ai quei capannoni-lager, che ora tutti vorrebbero far svanire come un brutto incubo da cui risvegliarsi per non essere additati come conniventi o, peggio, complici, di uno schiavismo, formato orientale.
Perché se l’integrazione fra le due città di Prato, non è mai avvenuta, molti ne hanno tratto vantaggio. E nel quartiere cinese Macrolotto si trovano molti studi di commercialisti pratesi, che hanno speculato sugli affari di aziende, che aprivano, poi chiudevano, per evadere le tasse, per poi riaprire con un prestanome. «E forse qualcuno dovrebbe provare a ricalcolare i blitz dei carabinieri che hanno sequestrato ingenti quantitativi di ketamina (l’ultimo blitz risale al 16 novembre in un circolo gestito da cinesi), una droga che serve anche a reggere turni di lavoro di 16-18 ore», fa notare a Linkiesta un piccolo imprenditore, uno di quelli che non usano i cinesi come alibi per i fallimenti italiani.
Inoltre, la bolla immobiliare non è ancora scoppiata, ma la procura di Prato sta indagando sui mutui facili concessi ai cinesi, dopo l’esposto dell’assessore comunale alla Sicurezza Aldo Milone, che nel marzo scorso ha anche inviato 300 segnalazioni alla Banca d’Italia per finanziamenti concessi ai cinesi, apparentemente privi di reddito: 200 milioni di euro per mille mutui. Perché nella città che non ha voluto vedere, e ora fa finta di commuoversi per il rogo al Macrolotto, per anni i cinesi hanno comprato case e immobili con il “pronto cash” per un valore superiore e poi chiedevano alle banche i mutui, che poi nessuno pagava. Mutui che servivano, pare, a spartirsi altri flussi di denaro fra italiani proprietari di immobili e agenti immobiliari per rafforzare il sodalizio italo-cinese.
L’illegalità diffusa è penetrata ovunque a Prato, grazie ai soldi cinesi. Anche nelle istituzioni. Giovedì mattina infatti è stata arrestata una dipendente dell’ufficio anagrafe, che aveva fornito certificati di residenza falsi. In cambio di piccole tangenti da 600 a 1.500 euro a un gruppo italo-cinese, questa è l’accusa, di 11 persone, che avrebbero dato certificati falsi a 350 clandestini arrivati in Italia. Con un guadagno per la “banda dell’anagrafe” di un cifra che oscilla fra 180mila e 450mila euro in soli otto mesi. L’affare funzionava così: i cinesi raccoglievano le richieste dei certificati e le somme da dare a una ex dipendente comunale, licenziata per assenteismo nel 2011, che, aiutata dai figli, incaricava una funzionaria del Comune di fornire i documenti falsi.
Ecco perché chi ora afferma che i pratesi devono difendersi dai cinesi, dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza. Al di là delle eccellenze italiane e cinesi, che non sono mai state in competizione; al di là delle eccelse storie di integrazione (rare), ora che il rogo si è spento, bisognerebbe gettare acqua anche sul fuoco (fatuo) dell’ipocrisia.