E questi sarebbero i tipi che hanno rovinato l’Italia? Questa banda del Capitale umano di Paolo Virzì? Ma per favore. Nella rovina del Paese Italia identificare il male con figure improbabili vuol dire offrire una visione bonaria, sostanzialmente rassicurante: falsa. Pur ammettendo la sbagliata equazione Brianza uguale finanza, c’è modo e modo di incarnare gli spiriti animali di questo mondo. Va bene che Piazza Affari non è Wall Street, ma Scorsese, con furia perfino maggiore del precedente Oliver Stone, ci racconta il suo Lupo-Di Caprio come una bestia incontrollabile e dissoluta, che tira cocaina dal culo delle tante puttane di cui si circonda, che rovina in un amen chiunque sia a tiro.
Perché questo è il punto: pensi che il male, un male che addirittura rovina un intero Paese, sia la speculazione, il guadagno parassitario? Allora devi raccontarlo così, nella sua gravità, nel caso anche nel suo eccesso: essere misurati non è indice di profondità anti-manichea, al massimo di pavidità morale. Non si chiede di fare come Scorsese (impossibile), ci sono certo molti altri modi per farlo, ma a patto di saper guardare davvero il marcio che si vuole raccontare.
Qui invece il pur bravo Fabrizio Gifuni, broker, sembra un manichino per abiti sartoriali, il suo personaggio non restituisce niente del ruolo che dovrebbe rivestire, anche come figura simbolica di una classe dirigente marcia. Anzi, alla fine della fiera, pure lui è un così bravo figliolo, un brau fioeu. Come poi un agente immobiliare (certo non un Premio Nobel dell’economia, ma di sicuro uno che i soldi un po’ li maneggia) creda alla favoletta di guadagni facili ed enormi nel giro di poche settimane, è roba che non sta in piedi: aggrava il quadro l’interpretazione del solitamente affidabile Fabrizio Bentivoglio, nel ruolo di ganassa al suo peggio (comunque non pessimo come nel pessimo Tutto tutto niente niente).
Il capitale umano è una somma di imperfezioni che alla fine smontano da sé l’intera struttura di racconto morale del film. Intanto, c’è sempre una tendenza al sorriso, anche un po’ pacioccone, una cifra di commedia che costituisce sempre più una prigione per autori affermati e i nuovi: per quando (ormai a breve) diventeremo i camerieri d’Europa, la battuta pronta e il sorriso tondo ci faranno comodo per una mancia competente, ma diciamolo: che malinconia.
C’è poi questa Brianza davvero posticcia, una Brianza dove si legge «La Prealpina» di Varese (boh), una Brianza dove si fa ricadere la Valcuvia che invece è verso il Lago Maggiore (altra provincia), una Brianza dove i politici sono leghisti duri nemmeno fossimo nelle valli bergamasche e non nell’area più berlusconiana d’Italia (ma l’antiberlusconismo forse non si porta più come un tempo, è un’attitudine un po’ fuori moda, meglio bersagliare i buzzurri padani, peraltro pure loro in brutte acque).
È una Brianza che Virzì ha ammesso di non conoscere, vedendola come un “territorio esotico, misterioso, enigmatico” (la Brianza, non, chessò, la Groenlandia: la Brianza). E poi il punto non è raccontare la Brianza, dice. Va bene. Ma un racconto, che pretenda di essere ambizioso, si costruisce sui dettagli. E il fatto che si voglia raccontare un’Italia profonda e non irrilevante per l’economia del Paese, senza conoscerla, è piuttosto singolare. Che lo si faccia partendo da un romanzo americano a firma di Stephen Amidon ambientato nel Connecticut aggiunge ulteriore originalità all’operazione. Che si pretenda di offrire un quadro dei nostri tempi con questo pasticcio, è forse troppo.
Intendiamoci, non mancano alcuni spunti nella sceneggiatura di Virzì, Francesco Bruni e Francesco Piccolo. L’idea di decomporre il tempo del racconto moltiplicando i punti di vista e riallineando i fatti da varie angolazioni, è un’idea consumata in mezzo mondo anche con sperimentalismi estremi, ma quasi brillante per lo stagnante storytelling cinematografico italiano d’oggi. La storia è la ricerca del colpevole della morte di un povero cameriere investito da un’auto che scappa, una notte d’inverno. Il racconto coinvolge due famiglie legate da rapporti d’amore (finito) e amicizia (falsa). Desta qualche perplessità che in tutti questi misteri, nascondimenti, silenzi, la trama si sciolga con l’inverosimile soluzione di un computer rimasto acceso. Diciamo che un po’ di fantasia in più avrebbe giovato.
Quanto alla solidità e credibilità dei personaggi, ce ne solo almeno due, quelli interpretati da Valeria Bruni Tedeschi e Luigi Lo Cascio, che sono un goffo spot involontario per la soppressione del teatro nel nostro Paese, tra l’altro col povero Carmelo Bene ridotto a sottofondo per un mediocre sollazzo borghese pure interruptus (e questo davvero Bene non l’avrebbe perdonato). Spicca per fortuna il lavoro di una parte del cast. Valeria Golino, la più convincente. Bravi pure i giovani Matilde Gioli, Guglielmo Pinelli (entrambi esordienti) e Giovanni Anzaldo. Strepitoso in una parte pur piccola Paolo Pierobon.
Virzì se l’è presa per le polemiche sul film (molto noiose: ancora i soldi pubblici?…) fingendo di non sapere che saranno una manna per la cassa. Ma resta il punto: questa sua cassoeula non è proprio granché, preferibile tornare al cacciucco.
PS: A proposito di Brianza ma non solo, ci sarà qualche regista capace di raccontare la nostra manifattura? La gloria di molta nostra piccola e media impresa pur nelle difficoltà bestiali? I nodi della nostra industria? Certo, un lavoraccio. Meglio buttarla in commedia. Ahahahah…