Il cattolico Scorsese e il peccatore della finanza

The wolf of wall street

Al di là di tutto, al di là dei nani usati come freccette, delle scimmie-mascotte a spasso per l’ufficio, delle strisce di coca aspirate dalle chiappe delle puttane, al di là delle orge, delle candele infilate dove non batte il sole, dei milioni di dollari guadagnati a ore, al di là dei lussi, degli eccessi, delle esagerazioni di qualsiasi segno, “

The Wolf of Wall Street rimane una classica parabola cattolica di Martin Marcantonio Luciano Scorsese, ossia un maestro del cinema che in gioventù voleva farsi prete prima di deviare verso il racconto della vita per immagini. Questa sua ultima fatica (per sua stessa ammissione ce ne saranno al massimo altre due, poi stop, perché i 70 son passati e fare un film, per di più un film di Scorsese, è davvero un duro lavoro) si pone sul solco segnato da Quei bravi ragazzi e Casinò: un racconto fluviale attraverso le tentazioni fuori legge del successo e del denaro.

Dunque, è un bagno nel peccato. Molto cattolicamente, è questo il vero piacere: la rutilante, energetica, adrenalinica immersione nell’errore consapevole è per Scorsese una specie di estasi non dissimile da quella sensualissima, quasi orgasmica che Bernini attribuì nel marmo a Santa Teresa d’Avila. Solo che nel cinema scorsesiano non è Dio a colpire con la sua transverberazione, ma il diavolo col suo sterco. E’ il denaro, il denaro il vero tema del grande romanzo americano di Scorsese: la mafia, le case da gioco, la finanza. La fascinazione per questo mondo luccicante e sporco eccita lo sguardo, si insinua in ogni movimento di camera, diventa pura epica della contemporaneità. E’ un’ascesa ai vertici della pienezza, un trasporto totalizzante. Più su non c’è più niente, o meglio c’è Dio, che invisibile quanto implacabile piega la hybris dei suoi eroi affascinanti e nell’ultimo tratto della loro avventura li condanna alla discesa crepuscolare, alla polvere della normalità, al rientro nei ranghi, magari sotto falso nome: tra la gente come noi, con una grande storia da raccontare ma un futuro piatto davanti, come quello che un De Niro sconfitto intravvede dietro gli occhialoni giganti sul finale di Casinò. Che il piacere di Scorsese sia il peccato sta nel fatto che le sue redenzioni sono sempre piuttosto malinconiche, hanno il sapore della perdita e non della conquistata serenità. Il che non stupisce, visto anche il suo Cristo preso dalle tentazioni com’era umano, troppo umano per non essere peccatore come noi.

Che cosa si può fare dopo questo viaggio nei magnifici sbagli commessi dentro il mondo, tra tutte le seduzioni del diavolo cui si è ceduto volentieri anzi le si è cercate con accanimento? Confessarsi. E infatti, Quei bravi ragazzi come Casinò e infine The Wolf of Wall Street formano una specie di “trilogia della confessione”: sono delle lunghissime confessioni (e naturalmente la religione dei personaggi non c’entra nulla) in voice over del protagonista, dopo che tutto è accaduto, dopo che il carrello è salito nei picchi più alti delle montagne russe ed è ridisceso fino a fermarsi, dinanzi a un immaginario confessore-procuratore-spettatore, che ha modo di ascoltare e vedere e godere nel ricordo e nella complicità di quella splendida melma in cui il personaggio si è immerso per poi ripulirsi. Ora ci dice tutto, cercando forse un’assoluzione, o più diabolicamente attuando l’ennesima seduzione ai nostri occhi stupefatti da un racconto così magnifico.

The Wolf of Wall Street non è niente di nuovo rispetto a quello cui ci ha abituato lo Scorsese più grande. La stessa forma-racconto, la stessa maestria. Qui pigia forte sui tasti dell’eccesso, rappresentando il capitalismo finanziario come un ininterrotto baccanale, con i suoi orsi, i tori e tutti quegli altri spiriti animali di cui parlava Keynes, in mano sostanzialmente a tossicodipendenti in ossessiva ricerca di uno sfogo al loro eccesso («seghe e coca» è la ricetta che un immenso Matthew McConaughey impartisce al debuttante Di Caprio appena entrato alla Rothschild prima del bagno di sangue in Borsa dell’ottobre 87). E’ chiaro, questa è la storia di un broker, ma sostanzialmente a Scorsese della finanza non interessa granché: al momento in cui Di Caprio fa quasi per spiegare i meccanismi delle sue truffe, si blocca «perché tanto non capireste». No, a Scorsese interessa come sempre raccontare il peccatore, e in questo ha un’indiscutibile sapienza nell’identificare il Male (confrontare con le pallide figurine finanziarie di Virzì, per deprimersi o al limite bestemmiare sull’Italia).

Va però detto che non gli riesce quello che gli è riuscito con Quei bravi ragazzi e Casinò: a nostro modo di vedere, perché non c’era Nicholas Pileggi (un genio assoluto, anche per aver sposato la grande Nora Ephron) alla sceneggiatura ma un pur bravo Terence Winter (un passato da giovane avvocato alla Merrill Lynch) che accumula situazioni che alla lunga diventano ripetitive, che disegna personaggi che non suggeriscono profondità in cui vorremmo beatamente sprofondare (si pensi solo ai personaggi di Joe Pesci, alla Sharon Stone di Casinò, forse il più grande film made in Usa dei Novanta), ma soprattutto che non ci spiega come davvero il peccato (in questo caso finanziario) sia indissolubile col mondo e non sia invece semplicemente il gioco “pump and dump” di un gruppo di sballati persi nel quaalude. Diciamolo pure: fosse durato anche molto meno, non avrebbe perso nulla. Ma comprendiamo pure che un personaggio così eccessivo e rumoroso richiami inevitabilmente un eccesso di narrazione.

Bel film? Sicuramente sì. Spettacolare. Capolavoro? Sicuramente no.