Il futuro dell’Egitto: terrorismo e dittatura militare

Non solo lotta alla Fratellanza

L’Egitto ha una nuova Costituzione. Che lo trasforma in uno stato di polizia, dove l’esercito è svincolato da ogni controllo e i tribunali militari possono processare i civili. La rivoluzione del gennaio 2011, che portò al crollo del regime di Mubarak, ha fallito. «Più che all’era di Mubarak sembra proprio che stiamo tornando a quella di Nasser, quando l’Egitto era governato dai militari», dichiara a Linkiesta Issandr El Amrani, mediorientalista e autore del noto blog The Arabist.

Il sogno democratico sembra essere stato come un miraggio nel deserto. Lontano, evanescente. E, soprattutto, ingannevole. I generali sono tornati a essere i veri faraoni d’Egitto. Lo conferma a Linkiesta Mohamed Elmenshawy, direttore del programma di studi regionali presso il Middle east institute di Washington: «La mia speranza di vedere un Egitto democratico è quasi nulla».

Difficile dargli torto, visto quanto sta accadendo in quello che rimane il più importante Paese del mondo arabo. Attentati, disordini, proteste, repressione durissima da parte delle forze militari e di polizia. La Costituzione stessa è stata approvata in un clima di paura e intimidazione. Per non parlare della preoccupante involuzione politica. Iniziata con la caccia all’uomo nei confronti dei Fratelli Musulmani, e culminata nelle ultime mosse del generale Al Sisi.

Il militare sessantenne, infatti, è il vero leader dell’Egitto post-Mubarak, anche se preferisce nascondersi dietro la facciata del governo ad interim composto da civili. «Ed è quasi sicuro che, dopo aver invitato gli egiziani ad approvare la Costituzione e la vittoria del si al referendum, si candiderà alle prossime elezioni presidenziali» spiega El Amrani. In effetti Al Sisi aveva già svelato le sue vere intenzioni di recente, dicendosi disponibile a partecipare alle elezioni presidenziali che dovrebbero tenersi nei prossimi mesi. Naturalmente ha precisato che si candiderà «solo su richiesta del popolo e con un mandato da parte dell’esercito». Perché l’Egitto «è una democrazia», ha detto.

«Evidentemente Al Sisi ha un concetto di democrazia tutto suo» ironizza un cittadino egiziano residente in Italia che preferisce non rivelare la sua identità. Quella di rimanere anonimo è una scelta comprensibile, considerando la deriva autoritaria che ha investito l’Egitto dopo il golpe contro l’ex presidente Mohamed Morsi. A novembre è entrata in vigore una legge che vieta ogni tipo di protesta o manifestazione non autorizzata dalla polizia. E i Fratelli Musulmani, un tempo il più potente movimento nazionale, sono ormai in ginocchio: centinaia dei loro membri, fra leader e sostenitori, sono stati rinchiusi in carcere; lo stesso movimento, dopo l’attentato che ha colpito la città di Mansoura lo scorso 24 dicembre, è stato dichiarato organizzazione terroristica dal governo.

A nulla è servita l’immediata reazione dei Fratelli Musulmani, che hanno definito l’attentato «un attacco all’unità del popolo egiziano», e invocato un’inchiesta per portare i responsabili dell’atto davanti alla giustizia. Peraltro l’attentato è stato subito rivendicato dall’organizzazione terroristica Ansar Beit Al Maqdis (I Sostenitori di Gerusalemme), che ha la sua base nel Sinai, ma questo non ha salvato i Fratelli Musulmani dal colpo di grazia che il governo gli ha voluto assestare.

«La repressione condotta dall’esercito contro i Fratelli Musulmani riporta l’Egitto ai tempi oscuri della dittatura mubarakiana, e potrebbe causare una radicalizzazione delle frange estreme del movimento, costretto a operare in clandestinità. – dice a Linkiesta Massimo Campanini, professore all’Università degli Studi di Trento, tra i massimi esperti italiani dell’organizzazione islamista – È questo il rischio maggiore della repressione: trasformare un’organizzazione che per decenni aveva cercato di legittimarsi seguendo le regole del gioco democratico, in una vera e propria organizzazione terroristica». Cosa che fino ad ora i Fratelli non sono stati, sottolinea il docente, che pure ne riconosce gli errori: «dal desiderio di forzare l’islamizzazione della società egiziana alle ambiguità ideologiche».

Ma non sono solo gli islamisti ad essere nel mirino delle forze dell’ordine. Nelle ultime settimane sono stati arrestati vari attivisti liberali, sostenitori né dei Fratelli Musulmani né dell’esercito, ma di un’autentica democrazia.

E intanto l’Egitto sta diventando un posto sempre meno sicuro. Basti pensare che appena due giorni dopo l’attentato di Mansoura, costato la vita a una ventina di persone, un autobus è stato fatto esplodere al Cairo, senza causare vittime ma ferendo vari passeggeri. Dopo altri quattro giorni, nella provincia di Sharqiya, un’auto imbottita con 20 chili di esplosivo è scoppiata vicino a un centro dell’intelligence militare, ferendo quattro persone. Ancora, la mattina del primo giorno di votazione del referendum costituzionale, un ordigno è stato fatto esplodere fuori da un edificio governativo del quartiere cairota di Imbaba, pur senza causare vittime.

Una situazione simile ricorda più l’Iraq che l’Egitto, Paese solitamente immune al terrorismo. Ma Elmenshawy è convinto che gli attentati continueranno. «Dalla caduta di Morsi la situazione è diventata davvero imprevedibile quanto a sicurezza. La repressione messa in atto dal 3 luglio (giorno della destituzione dell’ex presidente islamista a mano dell’esercito) ha spinto dei gruppi violenti ad attaccare i centri delle forze dell’ordine come rappresaglia contro le operazioni dei dipartimenti della sicurezza nazionale. Credo che l’Egitto soffrirà di quest’instabilità a lungo».

Una prospettiva per nulla tranquillizzante. La crescente insicurezza ha colpito duramente l’economia egiziana. Ne ha risentito in particolare il settore turistico, che fino alla rivoluzione del gennaio 2011 rappresentava il 13% del Pil. Mentre adesso, notizie come quella della coppia di svizzeri uccisi e sepolti nel giardino della loro casa di Hurgada a inizio gennaio, non rendono l’Egitto una meta turistica particolarmente allettante.

E in un Medio Oriente in fiamme, un Egitto instabile e infestato da organizzazioni terroristiche come Ansar Beit Al Maqdis «è l’ultima cosa che l’amministrazione Obama vuole. – spiega Elmenshawy – Gli Stati Uniti temono un’instabilità a lungo termine in Egitto, mentre non sono affatto interessati alla democrazia o al rispetto dei diritti umani. Ma in fondo sanno che non perderanno il loro alleato. Gli alti ufficiali dell’esercito egiziano sono stati addestrati e istruiti negli Stati Uniti, quindi si intendono alla perfezione con quelli americani».

In realtà, a dispetto delle continue dichiarazioni a favore di una vera democrazia e della temporanea sospensione, lo scorso ottobre, di parte del sostegno finanziario ai militari, Washington non ha mai voltato le spalle all’esercito egiziano. Che infatti continua a ricevere soldi, veicoli ed equipaggiamenti vari dal suo alleato oltreoceano. Un alleato molto comprensivo, retorica dei diritti umani a parte. L’unica linea rossa nelle relazioni fra Washington e Il Cairo è l’accordo di pace con Israele. I militari egiziani, però, non hanno alcuna intenzione di violarlo. Non sono degli ingenui, ma una casta determinata a proteggere la sua egemonia. Non si diventa faraoni d’Egitto per niente.

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