Il job act di Renzi? Sarà come Schroeder in Germania

La riforma dei centri per l’impiego

Matteo Renzi come Gerhard Schröder. Sulla possibilità di sforare il tetto del 3% al deficit in rapporto al Pil il sindaco rottamatore guarda alla Germania dell’ex cancelliere socialdemocratico. In un’intervista rilasciata al Financial Times nel gennaio 2005, Schroeder tedesco indicava tre condizioni in cui gli Stati membri potevano chiedere flessibilità da parte delle autorità comunitarie nell’applicazione del trattato di Maastricht:

  • se un Paese è impegnato in costose riforme strutturali; 
     
  • se c’è stagnazione;
     
  • se sta sopportando condizioni economiche particolarmente sfavorevoli.

Un’opportunità che il segretario Pd legherà al pacchetto di misure in arrivo in settimana, il Job act. Dal comitato del sindaco rottamatore non traspare alcuna indicazione numerica sulle coperture, soltanto una generica indicazione di utilizzare i 32 miliardi di risparmi – confermati dal ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni in un colloquio con la Repubblica – derivanti dalla spending review del commissario Cottarelli. Parte per tagliare il cuneo fiscale, parte per implementare le politiche attive di sostegno al reinserimento.

Un punto, quest’ultimo, di cui ha parlato – a suon di numeri – il senatore di Scelta Civica Pietro Ichino. In una lettera al Corriere della Sera, il giuslavorista ha lamentato le scarse risorse, 15 milioni, destinate all’esperimento del “contratto di ricollocazione”, a fronte di un milardo di euro «per le politiche del lavoro “passive”, cioè di puro e semplice sostegno del reddito dei disoccupati, senza alcuna condizionalità né alcuna misura attiva per il loro reinserimento». Il modello a cui fa riferimento Ichino è quello olandese: il centro per l’impiego regionale paga un voucher all’agenzia interinale che offre assistenza al disoccupato, cassaintegrato, etc. soltanto a seguito dell’occupazione effettiva del lavoratore per almeno sei mesi.

Intervenendo a Che tempo che fa? a fine dicembre, Renzi stesso aveva insistito sul medesimo aspetto: «Proponiamo un sussidio unico di due anni per chi perde il posto di lavoro e contemporaneamente un sistema serio di formazione professionale». Sul primo elemento le proposte scritte assieme all’ex McKinsey boy e ora deputato Pd Yoram Gutgeld mirano a una semplificazione radicale in entrata – con l’eliminazione dei contratti di collaborazione a progetto – e in uscita. Compresi gli strumenti di sostegno al reddito: basta una superficiale ricognizione sul sito dell’Inps per rendersi conto che – tra cassa integrazione ordinaria e in deroga, mobilità ordinaria e in deroga, assegni familiari, etc. – ce ne sono una ventina.

Sul secondo il tasto battuto è quello della produttività. Coinvolgendo quali soggetti e impiegando quante risorse? Idealmente, uno dei perni del job act sono i centri per l’impiego. Tant’è che all’ultima Leopolda lo stesso Renzi aveva dichiarato: «Tre ragazzi su 100 in Italia trovano lavoro con i Centri per l’impiego – detto all’ultima Leopolda, lo scorso ottobre -, mentre in Svezia sono 41». Nei calcoli di LinkTank, il confronto con il Paese nordico è impietoso, in termini di risorse stanziate: un miliardo contro i 500 milioni dell’Italia, considerando peraltro che in Svezia gli abitanti sono 10 milioni mentre da noi 61.  

Numeri che conoscono bene all’interno della segreteria Pd, anche se nessuno ufficialmente si sbilancia sulle cifre necessarie a “svedesizzare” il sistema dei centri per l’impiego, oggi pressoché inutili. Ufficiosamente, la road map per capirlo partirà dai dati del monitoraggio effettuato dalla commissione per la valutazione della riforma Fornero coordinato dal ministero del Lavoro, che sta elaborando le risultanze di Inail, Inps, Isfol, Italia Lavoro, Istat, e ministero dell’Economia. Da un anno è attiva l’Aspi, che sostituisce le indennità di disoccupazione e mobilità. Dal primo gennaio 2013 con la riforma del lavoro del ministro Fornero si parlerà solo di Aspi, Assicurazione sociale per l’impiego. Finora, per combattere la disoccupazione esistevano tre tipi di ammortizzatori sociali: cassa integrazione, indennità di disoccupazione e di mobilità.

Rimane l’articolo 18, che non è un aspetto «marginale» quanto vorrebbe Renzi. In cambio del contratto unico a tempo indeterminato, il job act prevede la sua eliminazione sui nuovi contratti per i primi tre anni. Un provvedimento da integrare allo youth guarantee comunitario, che prevede un corrispettivo assegnato ai servizi di collocamento dei giovani disoccupati e implica, da parte dei centri per l’impiego, offrire servizi di “seconda generazione” che per il senatore Ichino non sono in grado di fornire. Un’opinione condivisa peraltro dal numero uno dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Intanto la Cgil, per bocca del segretario Camusso, ha chiesto uno stanziamento da 1,5 miliardi. 

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